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Diritti umani calpestati. Il caso della Cina e le mosse di Trump

Il confronto tra Stati Uniti e Cina potrebbe salire di livello, al di là dello scontro commerciale, e arrivare sul campo dei diritti umani e oltre: secondo le informazioni raccolte dal New York Times tra i funzionari statunitensi, Washington starebbe pensando alla possibilità di alzare sanzioni economiche contro Pechino per la violazione dei diritti sui cittadini musulmani uiguri, minoranza che vive nella complicata provincia dello Xinjiang.

Là i cinesi hanno avviato una campagna di sorveglianza e giustizia predittiva, attivando campi di detenzione con l’obiettivo della rieducazione culturale: arresti (anche preventivi) a chi segue lezioni quotidiane, denunce contro alcuni aspetti dell’Islam, studi sulla cultura tradizionale cinese e giuramenti di fedeltà al Partito comunista cinese. Pechino la chiama “educazione contro l’estremismo” (o “trasformazione attraverso l’educazione”): nei campi potrebbero esserci dozzine di migliaia di persone, forse un milione.

Da mesi le attività cinesi in quella zona sono oggetto di denunce pubbliche e discussioni (ad agosto funzionari cinesi sono stati convocati alle Nazioni Unite per dare spiegazioni): gli uiguri sono cinesi di culto religioso musulmano sunnita. All’interno della comunità hanno attecchito movimenti separatisti insurrezionali già repressi dal governo, e hanno anche preso piede istanze estremiste (alcuni uiguri sono partiti per compiere il jihad califfale verso il Siraq, e la zona è soggetta a continue contaminazioni con il confinante jihadismo afghano, tanto che Pechino progetta di finanziare una base militare da cui il governo di Kabul può gestire l’area).

Pechino ha avuto problemi di sicurezza col separatismo radicalizzato uiguro, e di più ne teme per il rischio del terrorismo di ritorno, per tale ragione ha lanciato una campagna di controllo, utilizzando anche metodi di polizia non convenzionali attraverso intelligenza artificiale. Molte delle persone fermate, sulla base di incroci di big data, sorveglianze, controlli continui, vengono poi spediti nei campi di rieducazione, anche se non hanno commesso crimini.

Washington starebbe pensando di punire soggetti coinvolti direttamente (come Chen Quanguo, capo del partito dello Xinjiang dall’agosto 2016 e macchinatore del progetto di controllo) e le società che forniscono i sistemi (individuate la Hikvision e Dahua Technology), ma anche ad aumentare i controlli sulle vendite di componenti tecnologiche americane che potrebbero essere utilizzate per le attività. Due settimane fa, dopo la lunga fase di discussione, i congressisti hanno fatto pressioni dirette sul segretario di Stato, Mike Pompeo, e su quello al Tesoro, Steve Mnuchin, chiedendo al governo di agire contro quello che Jerome Cohen, professore della New York University School of Law, ha definito il più grande abuso di potere e violazione dei diritti della storia della Cina (Human Right Watch le ha considerate di “portata non viste in Cina dalla Rivoluzione Culturale del 1966-1976”. In un op-ed pubblicato a fine luglio da USA Today, Pompeo ha elencato gli uiguri tra le minoranze che soffrono maggiormente le repressioni nel mondo, definendo la loro condizione “aberrante”.

Ma c’è da fare anche un discorso più ampio: tra cinesi e americani è in atto una competizione globale per aggiudicarsi il futuro. Uno dei campi di confronto più serrati non è quello commerciale, ma quello che riguarda la tecnologia, in particolare i sistemi 5G e quelli per l’intelligenza artificiale. È qui che lo scontro sfocia sul piano politico: gli americani accusano la Cina di pratiche scorrette, dallo spionaggio industriale per sottrarre segreti progettuali, all’hacking indirizzato anche a sabotare i progressi dell’avversario, alle pratiche economiche di sussidio alle società che sparigliano il mercato e la concorrenza.

È in quest’ottica che la decisione umanitaria per i diritti degli uiguri diventa anche una mossa strategica: nello Xinjiang la Cina sta sperimentando, infischiandosene delle leggi internazionali sul rispetto delle minoranze e dei principi di libertà, le sue tecnologie oltre il livello etico e legale consentito in altre parti del mondo; nell’Occidente dei diritti, per esempio. Lo stesso avviene in alcuni Paesi dell’Africa, in cui, approfittando dell’autoritarismo di alcuni governi, i cinesi possono spingere all’estremo le attività che diventano per loro occasione di studi e ricerche, e per gli esecutivi locali un’operazione di sorveglianza contro il dissenso (nel caso dello Zimbabwe, per esempio, riconoscimento facciale attraverso Ai: sistemi che, per altro, funzionano male con i volti di uomini di colore e che la Cina può tranquillamente testare in certi Paesi al sicuro da controversie etico-legali).

Stressare le applicazioni al di là delle leggi democratiche e del rispetto dei diritti civili e umani — che è il culturale all’interno di cui operano le ditte americane ed europee, o canadesi, giapponesi, australiane che si contendono con le cinesi la leadership nell’Ai — diventa automaticamente un metodo di competizione scorretto, e anche per questo gli americani potrebbero essere interessati a punire la Cina con sanzioni dual use: da una parte il confronto globale, dall’altro elevarsi al ruolo di tutori mondiali dei diritti, ricoperto per anni.

 

 

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