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La Turchia tra Libia e Siria. Tutte le grane di Erdogan sul fronte mediorientale

Erdogan

La situazione in Libia è appesa a un cessate il fuoco, che potrebbe rivelarsi fragile come i precedenti. In Siria sta peggiorando rapidamente, con il regime di Bashar al-Assad determinato a sferrare un attacco alla città di Idlib che potrebbe risolversi in una carneficina. La Turchia è presente su entrambi i teatri e come sempre lavora dietro e davanti le quinte, con la consueta dose di ambiguità che la rende un alleato sempre meno affidabile per l’Occidente.

Sul fronte libico, Ankara, almeno a parole, è dalla parte del governo Fayez Al Serraj, presidente del Governement of National Accord of Libya (Gna), quindi l’istituzione riconosciuta dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale, Italia inclusa. Proprio pochi giorni fa, Bidad Gansu, Ministro del governo di Tripoli, ha incontrato l’ambasciatore di Ankara, Ahmet Dogan. Un incontro particolarmente importante per entrambe le sponde. Ankara infatti sta cercando di riportare nel Paese alcune aziende turche, soprattutto nel campo dell’energia, che con le costruzioni sono i settori su cui si è concentrata maggiormente l’azione della Mezzaluna nel Paese.

Peccato che, dietro le quinte, Ankara sia impegnata su un altro fronte, insieme con il Qatar, ormai fra i maggiori finanziatori dei Fratelli Musulmani. L’accusa di alcuni analisti è pesante. Doha invierebbe denaro al Benghazi Revolutionary Shura Council (Consiglio Rivoluzionario della Shura di Bengasi, BRSC), composto da numerose fazioni islamiste. La Turchia, da parte sua, offrirebbe appoggio logistico, soprattutto per i miliziani feriti.

Un’accusa alla quale Ankara non è certo nuova, visto che le era stata rivolta anche per le cure ad alcuni terroristi dell’Isis nella fase intermedia della crisi siriana e che non si è certo fermata.

Di sicuro, se in Libia la Turchia gioca su due tavoli, la situazione in Siria è ancora più complicata ed è stata proprio Ankara con la sua politica estera esuberante fino allo scellerato. Il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, ha almeno tre fronti aperti, che potrebbero sballare ancora di più il sistema di alleanze che sta costruendo. Il primo è la sua personale guerra contro i curdi nel nord della Siria e il relativo braccio di ferro con gli Usa di Trump, accusati di finanziare lo Ypg, anche per dare fastidio l’ex storico alleato. In realtà la sponda curda è il modo più efficace che Washington abbia al momento per fare sentire la sua voce in Siria contro la Russia. E qui vediamo al secondo fronte, che poi rischia di trasformarsi nella madre di tutte le battaglie: l’attacco a Idlib.

Bashar Al Assad sa fin troppo bene che la cittadina rappresenta l’unico territorio dove l’opposizione siriana possa ricompattarsi in modo efficace. Il dittatore di Damasco, dal canto suo, è determinato a mettere la parola fine a sette anni di guerra, anche se non certo per fini umanitari. L’attacco a Idlib provocherebbe una vera e propria carneficina. Ankara vorrebbe fermarlo a tutti i costi, per due motivi, anche questi fuori dalla sfera umanitaria, anche se tutte le parti in causa dicono di agire per quello. Il primo è che, nonostante sia alleata di Mosca, Ankara vede ancora Assad con il fumo negli occhi. Il secondo è perché è stata proprio la Turchia a finanziare e aiutare diverse frange dell’opposizione siriana, incluse quelle in odore di jihadismo. Il problema è che la Mezzaluna, che pure, sulla questione Idlib, ha Washington dalla sua parte, dovrà trovare il modo di allinearsi alle posizioni di Mosca. L’asse con il Cremlino si sta consolidando, con benefici da entrambe le parti. Ma non solo la Turchia non può permettersi di dettare legge. Dall’altra parte ha anche l’Iran a fare da garante al numero uno di Damasco. Il terzo scenario in sui Ankara è impegnata sul fronte siriano, è quello della probabile ondata di rifugiati che provocherebbe l’attacco a Idlib. Erdogan ha fatto costruire al confine con la Siria un muro di oltre 700 chilometri. Ma davanti a un’onda umana che potrebbe raggiungere centinaia di migliaia di persone potrebbe non bastare. E per la Turchia, visto anche il momento poco florido attraversato dall’economia nazionale, è l’ultima cosa che ci vuole.



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