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Armi Usa a Taiwan e la Cina protesta (più grave dei dazi)

Questa proposta di vendita contribuirà alla politica estera e agli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e aiuterà a migliorare la sicurezza e le capacità difensive del destinatario, che è stato e continua ad essere un’importante forza di stabilizzazione politica, equilibrio militare e progresso economico nella regione” dell’Asia Sud-orientale. Il virgolettato è preso dalla nota con cui l’Agenzia per la cooperazione alla difesa e alla sicurezza del Pentagono ha reso pubblica l’approvazione di una fornitura di materiale militare americano di secondo grado – componenti di ricambio per aerei – a Taiwan.

Gli Stati Uniti forniranno 330 milioni di dollari di commesse militari al Paese, che il Pentagono definisce “forza di stabilizzazione”, ma che invece la Cina inquadra come uno dei motivi di disequilibrio esterni più sofferti, cruccio esistenziale storico. Per Pechino, Taiwan è una provincia ribelle, e non ammette politiche di riconoscimento diverse dalla “One China“, ossia quella che prevede un’ottica diretta verso il ricongiungimento futuro di Taipei sotto il controllo della Repubblica popolare cinese – Pechino da sempre usa il suo potere economico per portare i partner commerciali su questa visione (per esempio, qualche giorno fa, il Burkina Faso, ultimo dei paesi africani ad avere ancora relazioni diplomatiche con Taipei, ha deciso di tagliare con l’isola e allacciare rapporti ufficiali con la Cina, che sta inviando in Africa ingenti quantità di investimenti da cui vuole ottenere come ritorno anche l’allineamento su certe posizioni diplomatiche).

Un portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, ha già espresso rabbia per il contratto e ha detto che la Cina aveva già messo in chiaro i suoi sentimenti ai rappresentanti degli Stati Uniti – posizioni che seguono quanto deciso nella dottrina storica, classica, della One China, in piedi da quando nel 1979 sono state formalizzate le relazioni con la Cina.

Ma quella americana è una decisione che si allinea perfettamente con la postura di confronto-scontro che l’amministrazione Trump intende tenere nei riguardi della Cina: la questione sfocia nelle politica dei dazi (quella che un nuovo documento cinese accusa di “bullismo”), ma ha riverberi su molti altri dossier sensibili come quello su Taiwn – durante i mandati presidenziali di George W. Bush e Barack Obama, gli accordi militari con Taiwan erano diventati meno frequenti, mentre Washington tentava di migliorare i suoi rapporti con Pechino; ora il clima alla Casa Bianca è cambiato.

La vendita dovrà passare sotto l’approvazione del Congresso, e, nel caso, diventerebbe la seconda da quando Donald Trump si è insediato nello Studio Ovale: a giugno del 2017, dopo che una delle prime chiacchierate telefoniche internazionale tenute qualche mese prima dal neo-presidente americano fu proprio con l’omologa taiwanese, gli Stati Uniti avevano approvato una fornitura di missili, siluri e sistemi di monitoraggio dal valore di 1,4 miliardi di dollari. Un ambasciatore cinese disse che l’accordo stava danneggiando la fiducia tra Trump e il presidente cinese, Xi Jinping.

Washington usa la vicenda Taiwan come posizionamento anti-Cina: Taiwan ringrazia – con una nota ufficiale – e intanto incassa il sostegno. Secondo le fonti del South China Mourning Post, il governo americano intende anche inviare un distaccamento dei Marines nel paese, a protezione dell’American Institute of Taiwan (Ait): la scelta del corpo non è casuale, perché i Marines tra i vari compiti hanno anche quello di proteggere le rappresentanze diplomatiche americane, e infatti l’Ait non è un semplice centro culturale, ma è considerato l’ambasciata informale statunitense nell’Isola (la nuova sede è stata inaugurata a giugno ed è costata 256 milioni di dollari: il nuovo complesso simboleggia “la vitalità della partnership tra Stati Uniti e Taiwan”, come disse l’assistente del segretario di Stato per gli affari culturali, Marie Royce).

Cooperazione in ambiti non culturali, ma di sicurezza, difesa e comunicazione tra i due paesi dovrebbero partire presto, secondo il National Defense Authorization Act: una decisione che per i cinesi rappresenterebbe una “crisi da fronteggiare lungo lo stretto di Taiwan”, come scriveva a giugno il potentissimo Global Times, giornale online attraverso cui Pechino diffonde la linea governativa, in inglese, sulle faccende internazionali.

La Cina, davanti all’avvicinamento americano, ha irrigidito le proprie posizioni e iniziato a mostrare i muscoli. Pochi giorni fa, per esempio, intercettori dell’Aviazione militare di Taiwan sono stati costretti a uno scrambler aereo, scortando due bombardieri strategici cinesi H-6 che volavano sopra i cieli dell’isola (lungo il Canale di Bashi, a sud di Taiwan, e sullo stretto di Miyako, vicino alla prefettura giapponese di Okinawa) in quella che i taiwanesi hanno definito l’ennesima esercitazione di “accerchiamento” militare dell’Isola.

Il portavoce dell’Ufficio per gli affari taiwanesi del ministero degli Esteri cinese, An Fengshan, ha apertamente dichiarato che le manovre militari davanti a Taiwan sono un modo con cui Pechino intende minacciare le mire separatiste seguite dal governo di Taipei.

 

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