Skip to main content

La doppia missione americana in Siria: bombe sull’Isis, politica con l’Iran

siria

Gli americani intendono rimanere in Siria, e questo è piuttosto chiaro osservando le recenti dichiarazioni di vari pezzi dell’amministrazione, al di là di certe volontà di uscita espresse dalla Casa Bianca. Il Califfato sarà pure sconfitto, privo del potere statuale sul territorio, incapace di controllare sistemicamente come un tempo i gruppi affiliati in altre regioni, non più in grado di esercitare la forza ammaliante che ha creato proseliti in giro per il mondo; però nessuno al Pentagono intende proclamare vittoria – che arriverà di fatto a breve, entro fine anno, perché l’Is controlla più soltanto una striscia minuscola di territorio sul confine siro-iracheno che corre lungo l’Eufrate.

È del tutto possibile che ci siano dure ragioni di fondo sul perché i generali non parlano apertamente di vittoria, ma piuttosto definiscono la missione “in evoluzione”. Primo, vogliono garantirsi la possibilità che l’opinione pubblica non molli la posizione (diciamo così) anti-Isis e non crei problematiche alla politica per sostenere le future operazioni. Secondo, potrebbe esserci anche uno shift sugli interessi: sconfitto lo Stato islamico – sconfitto per quel che riguarda la sua dimensione visibile e popolare, ma resta un’enorme minaccia fatta di cellule segrete e presenza strisciante, un’insurrezione a bassa intensità simile a ciò che faceva il gruppo quando era ancora Al Qaeda in Iraq – gli americani potrebbero fermarsi in Siria per monitorare da vicino le attività iraniane, grande nemico dell’amministrazione Trump e dei suoi alleati regionali (Israele e Arabia Saudita), alleato del regime che ha usato la guerra civile per radicare la propria presenza nel paese.

Il piano anti-Is è stato già abbondantemente venduto ai cittadini americani, nessuno lo reputa non giusto, tutti sanno che sconfiggere il Califfato nella sua realtà centrale (e centralizzata) del Siraq è un’esigenza di sicurezza per gli Stati Uniti e per il mondo. Quei soldati statunitensi in Iraq e Siria ci sono, nessuno – a parte il presidente Donald Trump che è sembrato scalpitare per il ritiro – ne contesta il dispiegamento. Ed è un punto politico importante, un investimento che generali e pianificatori strategici americani potrebbero sfruttare su altri dossier. Lunedì, il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton ha dichiarato che contrastare l’influenza dell’Iran in Siria e altrove è uno dei principali obiettivi della missione militare statunitense in Medio Oriente – e dunque Siria compresa.

“Preferirei mantenere le truppe americane lì a tempo indeterminato, perché servono anche a bloccare la libertà di movimento e l’accesso alle linee di comunicazione dell’Iran che collegherebbero l’Iraq occidentale con il Libano”, ha detto James Phillips, ricercatore senior per gli affari mediorientali del think tank conservatore Heritage Foundation. L’esempio è la base di al Tanf sul confine tra Siria e Iraq: nata come avamposto per le forze speciali che stanno accompagnando i curdi siriani alleati americani a combattere lo Stato islamico, è diventata una postazione strategica in un territorio di passaggio – e per questo gli iraniani hanno mosso mesi fa alcune delle loro milizie siriane per disturbare l’attività degli americani (esperienza finita male, sotto le bombe dei jet dell’Air Force).

Ad al Tanf le scorse settimane i Marines hanno condotto un’esercitazione live-fire che ha un valore assolutamente dissuasivo: è per dare peso alla propria impronta in quel pezzo di territorio davanti agli altri attori esterni presenti in Siria. D’altronde, dice il Pentagono che l’Is potrebbe facilmente risorgere, e dunque questo presuppone che la presenza a lungo termine americana è più che giustificata al di là dell’impiego informale (per completezza: c’è anche l’opinione di chi crede che quella presenza americana possa essere addirittura un motivo per una nuova crescita dei baghdadisti, e che gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto aiutare la Siria a diventare uno stato forte dall’esterno).

Il capo del Pentagono, il segretario ex generale James Mattis, ha detto quattro giorni fa che il compito dei soldati americani è solo combattere l’IS: la presenza in Siria, ha spiegato, è legata al processo di pace delle Nazioni Unite che da anni si riunisce a Ginevra. L’Onu autorizza gli Stati Uniti a guidare la missione contro il Califfato come elemento di stabilizzazione. Sembra una parziale smentita di quello che ha detto Bolton, ossia il posizionamento anti-Iran, tanto che il segretario ha dovuto aggiungere che con lui e il consigliere sono “on the same sheet of music“, ossia della stessa idea.

Poi infatti Mattis ha spiegato: “Ovunque tu vada in Medio Oriente dove c’è instabilità, troverai l’Iran. Quindi, in termini di raggiungimento dello stato finale del processo di Ginevra, anche l’Iran ha un ruolo da svolgere, che è quello di fermare i problemi fomentanti”. La dichiarazione è chiara, netta, e si aggiunge alle minacce alzate contro Teheran dal presidente Trump durante il suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu.

Giovedì è stato il delegato per la crisi siriana della Casa Bianca, James Jeffrey (che negli Stati Uniti definiscono “Special Representative for Syria Engagement”, dove engagement ha un valore semantico abbastanza ampio), a dare qualche chiarimento in un briefing stampa speciale la cui trascrizione completa è pubblica. Gli americani resteranno in Siria finché lo farà l’Iran, ha detto Jeffrey parlando a nome del presidente, “noi non parliamo con gli iraniani, ma sappiamo molto bene quello che fanno”. Però, ha spiegato, non è detto che dovremo esserci “boots on the ground“, che è il termine politico-militare con cui a Washington si definisce la presenza di militari (boots, stivali) sul terreno.

“Ci sono molti modi in cui possiamo essere sul campo. Siamo certamente sul campo diplomaticamente”, ha detto Jeffrey: “Noi non vogliamo forzare gli iraniani fuori dalla Siria e non vogliamo che i russi li forzino fuori dalla Siria” perché questo implica l’uso della forzo: quello che faremo è esercitare “pressione politica”. È “nostra aspettativa” che il governo siriano, “qualunque governo sia presente alla fine di questo processo politico, o ad un certo punto del processo politico, non sentirà più il bisogno di avere forze iraniane nel paese, in particolare forze iraniane che sembrano essere lì per scopi diversi dall’aiutare il regime siriano”.


×

Iscriviti alla newsletter