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La soglia dell’età per la patente digitale scende a 14. Perché è un errore

digitale innovazione

Se si è trattato di un ennesimo favore, tutto italiano, alle lobby del web non è dato sapere, ma la decisione del governo, su impulso del parlamento in piena controtendenza con il resto d’Europa, di abbassare a 14 anni il limite d’età per prestare il consenso all’utilizzo dei dati personali su internet, non trova, al momento migliori spiegazioni.

Il fatto che la decisione sia avvenuta in sordina, senza troppe spiegazioni, e sia stata effettuata a scapito della tutela dei minori, stavolta non può trovare certo rifugio nella pretesa libertà del web, come invece sta avvenendo per la direttiva sul copyright recentemente approvata dal parlamento europeo e osteggiata da importanti esponenti dell’esecutivo nazionale. A meno che non si voglia considerare la libertà di farsi bersagliare di pubblicità targettizzata da google & co (leggi youtube) e di farsi un proprio profilo facebook, un diritto irrinunciabile già a 14 anni, anche contro il volere dei genitori.

Il parlamento ha emanato il decreto legislativo n.101 in vigore dal 19 ottobre. “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”. Il decreto era necessario in seguito all’entrata in vigore del regolamento europeo sulla privacy del 28 maggio scorso per adeguare la normativa italiana sopravvissuta al regolamento europeo (per sua natura direttamente operativo andando a sostituire le norme di tenore contrario dei singoli stati). Oltre all’adeguamento della legislazione in materia non abrogata era necessario che lo Stato Italiano, così come gli altri stati dell’Ue, decidesse alcuni aspetti particolari quali ad esempio l’importo delle sanzioni da comminare per le violazioni del regolamento e, appunto, il limite d’età necessario per prestare il consenso all’utilizzo dei propri dati personali, e quindi, per esempio, iscriversi a youtube o creare una pagina facebook con il proprio nome, scaricare e iscriversi ad app cui affidare la propria vita privata e relazionale, senza il necessario consenso di chi ha la potestà genitoriale (papà e mamma potrebbero tranquillamente non saperlo e addirittura non potrebbero neanche opporsi alla decisione del figlio 14enne). Ebbene l’Italia ha deciso incredibilmente di abbassare a 14 anni l’età per poter dare il consenso al trattamento dei dati personali per i servizi sul web.

Prima del nuovo regolamento, e del decreto 101, il codice privacy portava tale limite a 16 anni, come avviene in quasi tutti i Paesi del resto d’Europa,e lo stesso GDPR entrato in vigore a maggio, pur dando la possibilità di poter abbassare l’età del consenso a 13 anni (come in America), raccomandava di mantenere a 16 anni il limite per i minori. Senza nessuna spiegazione e contro il parere (illuminante) dell’autorità garante dell’infanzia, senza nulla aggiungere a proposito, l’Italia, paese noto per la (scarsa) emancipazione dei suoi adolescenti e a volte anche dei genitori internauti, ha deciso i abbassare a 14 anni tale consenso spedendo senza alcuna formazione nè protezione orde di adolescenti imberbi sul web già a 14 anni come qualsiasi persona adulta capace di intendere e volere. Sulla rete senza rete insomma, in pasto ai famelici appetiti di dati personali su potenziali consumatori dei colossi del web.

Il garante dell’infanzia nei propri pareri inviati alla Presidenza del Consiglio e alle Commissioni camerali aveva, consigliato di effettuare una formazione ad hoc per gli adolescenti e mantenere il limite di età a 16 (anni) proponendo anche un emendamento ad hoc, che escludeva il trattamento dei minori per fini commerciali. Ma i pareri ed emendamento sono stati entrambi tranquillamente ignorati da chi di dovere, la Presidenza del Consiglio e le commissioni parlamentari, che evidentemente nella tutela dei minori hanno deciso di appellarsi a ben altre considerazioni provenienti da diverse e misteriose autorità private. Così’ che l’art. 2-quinquies del decreto appena entrato in vigore (Consenso del minore in relazione ai servizi della società dell’informazione) fa sì che in Italia: “il minore che ha compiuto i quattordici anni può esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali in relazione all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione”. Unica voce a far notare tale “pericolosa” anomalia del sistema legislativo italiano rispetto al resto d’Europa, quella del magistrato Filomena Albano, garante dell’infanzia appunto, che dovendo digerire la bocciatura delle proprie preoccupazioni a tutela dei minori non rinuncia a far notare: “I 16 anni erano una scelta ragionevole per garantire ai ragazzi una ‘partecipazione leggera’ attraverso l’assunzione di responsabilità dei genitori, che ora invece ricadono su di loro. Diventa opportuno che l’abbassamento dell’età del consenso digitale dai 16 ai 14 anni sia adeguatamente compensato e accompagnato da programmi formativi specifici, rivolti ai minorenni, che ne assicurino una sufficiente consapevolezza digitale”. La stessa Garante ricorda che oggi un adolescente necessita del consenso genitoriale per il trattamento dei dati personali in qualsivoglia contesto offline – ad esempio per l’iscrizione in palestra – mentre, nel ben più complesso universo del trattamento dei dati online, può prescinderne.

Da qui la necessità di limitare i potenziali danni per i nostri ragazzi con licenza di internet, investendo nell’innalzamento della consapevolezza digitale con strumenti di formazione che possano almeno rendere edotti sui pericoli che l’accesso incontrollato a internet potrebbe provocare ai prossimi precoci navigatori. Almeno si pensasse ad istruirli, magari nelle scuole, magari col supporto di pareri esperti, non sarebbero solo i colossi del web, sempre a caccia di consumatori vergini cui far credere di fornire servizi gratuiti ottenendone in cambio la propria identità, ad avvantaggiarsi della ingenua spregiudicatezza italiana nei confronti del web. A proposito tace, finora, il garante della privacy.


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