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Zingaretti a capo del Pd può funzionare. Parola di Pregliasco (Youtrend)

La candidatura di Nicola Zingaretti a segretario del Pd un merito, dal punto di vista dem, sicuramente lo ha avuto: smuovere le acque e far uscire il partito dal torpore in cui era precipitato dopo il voto del 4 marzo e la nascita del governo gialloverde. Il presidente della Regione Lazio ha annunciato e ribadito con forza che in occasione del prossimo congresso – il cui avvio dovrebbe essere in programma per fine ottobre – sarà in campo per la leadership, mentre l’ex segretario Matteo Renzi ha preso tempo in attesa di individuare un nome che rappresenti la sua area. “Non mi candido al congresso. Votare Zingaretti? Non è detto. Ci sarà un altro candidato”, ha affermato Renzi a Stasera Italia su Rete 4. E intanto dall’altra parte dello schieramento politico, nella maggioranza che sostiene il governo guidato da Giuseppe Conte, si è andato consumando il sorpasso, anche corposo, della Lega ai danni del MoVimento 5 Stelle: di quattro punti percentuali secondo il sondaggio realizzato da Swg per il Tg di La 7 e addirittura di 5 in base all’ultima rilevazione condotta da Lorien Consulting. Tutte questioni che Formiche.net ha affrontato in questa conversazione con Lorenzo Pregliasco, analista politico e co-fondatore e direttore di Youtrend e Quorum.

Pregliasco, come valuta la candidatura di Zingaretti a segretario del Pd?

Per la prima volta dopo molti anni, nel Pd è emersa un’ipotesi di leadership competitiva diversa da Matteo Renzi. Dal 2013 – dai tempi della prima elezione a segretario dell’ex premier – non c’erano più state candidature alternative che fossero in grado di raccogliere una rilevante adesione. Nicola Zingaretti, invece, è una figura solida che, credo, tenderebbe a collocare il Pd nel solco della tradizione della sinistra progressista. Mentre negli ultimi anni il partito si era spostato progressivamente al centro, a livello di policy e, di conseguenza, pure di elettorato.

Ritiene che questo eventuale posizionamento più a sinistra possa premiare sotto il profilo elettorale oppure il Pd dovrebbe continuare a guardare al centro?

I riferimenti politici ormai sono cambiati. Non possiamo ridurre tutto al concetto di destra e sinistra. Ad esempio le nostre analisi dicono che c’è stato uno spostamento a destra su temi come l’immigrazione o la sicurezza ma, al contempo, sulle questioni socio-economiche una buona parte dell’elettorato è andata a sinistra. Lo stesso MoVimento 5 Stelle ha una piattoforma economica abbastanza in linea con quella di un partito di sinistra.

Ovvero più Stato e più welfare?

Sì, più intervento statale e meno austerity. Questi tratti – alcuni dei quali, penso alle pensioni, sono in comune con Lega – tipicamente appartengono, per così dire, alla sinistra. Il Pd, invece, negli ultimi anni è andato in un’altra direzione, come dimostrano numerosi provvedimenti della scorsa legislatura a partire dal Jobs Act.

Perché la candidatura di Zingaretti è competitiva a suo avviso?

Perché ha sempre vinto quando si è candidato. E perché ha sempre ottenuto più voti di quelli raccolti dal suo partito a livello nazionale. È accaduto nel 2008 quando è stato eletto presidente della Provincia di Roma, nel 2013 quando è diventato governatore del Lazio e il 4 marzo scorso quando è stato confermato presidente della Regione. Non dimentichiamoci che alle scorse elezioni politiche, nel Lazio, il centrosinistra è arrivato abbondantemente terzo mentre alle regionali – che si sono tenute quello stesso giorno – Zingaretti è riuscito a vincere, grazie anche a un quadro politico diverso determinato dall’accordo con Liberi e uguali e dalla corsa in solitaria di Sergio Pirozzi.

Qual è il principale punto di forza di Zingaretti?

Direi la solidità dell’amministrazione, testimoniata anche dalla sua capacità di farsi rieleggere nel Lazio. Un risultato che sta diventando molto difficile da centrare in tutti i comuni e le regioni d’Italia. E poi anche il fatto di rappresentare istanze diverse da quelle del Pd degli ultimi anni.

E i punti di debolezza?

Sono l’altra faccia della medaglia dei punti di forza. Rappresentare una proposta politica differente da quella del Pd di questi anni lo pone in una situazione di potenziale contrasto con l’attuale assetto del partito e dei suoi gruppi parlamentari. E anche il discorso dell’amministrazione può essere ribaltato in negativo: pur avendo guidato realtà territoriali molto importanti, Zingaretti non ha ancora fatto il grande salto nella politica nazionale. Un passaggio che non è affatto automatico.

Intanto gli ultimi sondaggi descrivono un elettorato ancora fortemente favorevole al governo…

A tre mesi dall’insediamento, siamo in una fase di piena luna di miele tra l’elettorato e il governo. Un’evidenza ben percepibile, fotografata pure da tutte le rilevazioni, secondo le quali la somma di Lega e M5S raggiunge quasi il 60% dei consensi.

La Lega, però, cresce notevolmente al punto di aver superato non di poco il MoVimento 5 Stelle, che invece perde voti. Come se lo spiega?

Il sorpasso, già fortemente simbolico in sé, è rilevante anche perché molto corposo. La Lega ha messo la freccia. Penso stia avvenendo innanzitutto perché Matteo Salvini ha un bacino di voti più vasto dal quale attingere: in parte dal MoVimento 5 Stelle e in parte dagli altri partiti di centrodestra che non a caso faticano non poco. Soprattutto Forza Italia. È vero che sui fatti di Genova è stato un po’ meno visibile dei Cinquestelle ma sulla vicenda Diciotti è stato decisamente più in prima linea. In generale il suo protagonismo mediatico sta riducendo il consenso dei pentastellati. Se si votasse oggi in fondo, il centrodestra, ammesso che esista ancora, sarebbe molto probabilmente in grado di avere una maggioranza autonoma.

Questo vuol dire che il voto anticipato potrebbe essere, a suo avviso, uno scenario plausibile?

Tutti gli elementi che vanno a creare uno squilibrio all’interno della coalizione di governo favoriscono soluzioni alternative. Una Lega così forte può spingere Salvini a cercare un’altra strada, che potrebbe essere il ritorno alle urne. D’altro canto questa perdita di consensi da parte del MoVimento 5 Stelle mette inevitabilmente sotto pressione interna la leadership di Luigi Di Maio. Se questa tendenza venisse confermata o accentuata, il ritorno alle urne diventerebbe più probabile. Non credo immediatamente, ma la possibilità aumenterebbe.

In autunno gli sbarchi diminuiranno mentre le partite economiche diventeranno sempre più importanti. Questa dinamica come potrebbe incidere sugli equilibri di governo?

Stiamo entrando nel periodo caldo del bilancio in cui l’attenzione si sposterà inevitabilmente sui provvedimenti economici. Una circostanza che potrebbe essere positiva per i Cinquestelle che in questa fase mi pare prestino più attenzione ai temi socioeconomici. E che, peraltro, nel governo guidano alcuni dei principali ministeri in materia, in particolare con Luigi Di Maio e con Danilo Toninelli. Tuttavia non escludo che il protagonismo di Salvini possa portare la Lega a pesare anche in fatto di economia molto di più di quanto non dicano i semplici numeri parlamentari. Politicamente non vale la metà dei Cinquestelle, anche se i seggi sono circa la metà.

Ma quando si parla di voto anticipato non si dovrebbe sempre tenere presente che in Parlamento esiste l’altra possibile maggioranza tra M5s e Pd? Tra i dem ne stanno parlando in molti e Roberto Fico ha raccolto applausi alla Festa dell’Unità di Ravenna…

Si è riaperto un tema molto dibattuto tra marzo e maggio quando esisteva realmente la prospettiva di una maggioranza di questo tipo. In Parlamento, però, i numeri sarebbero molto stretti, anche immaginando che tutti i senatori del Pd votassero la fiducia a questo eventuale governo.

Un’ipotesi di scuola dunque?

Io penso di sì, anche perché il corpo dirigente del Pd e la sua rappresentanza parlamentare sono ancora molto spostati sulle sensibilità renziane. Un ostacolo non di poco conto a eventuali accordi con il Cinquestelle, come conferma peraltro quanto avvenuto in primavera: la possibilità c’era ma Renzi ha deciso di chiudere. Però mai dire mai: se Salvini dovesse decidere di ritirare l’appoggio al governo, non si andrebbe, comunque, automaticamente al voto. Questo va detto: si cercherebbe sempre di trovare un’altra possibile maggioranza.

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