Il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) fra ottobre e novembre sentirà il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio per chiedere chiarimenti sulla corsa alla fornitura della tecnologia e delle infrastrutture per il 5G in Italia di Huawei, il colosso cinese dell’high-tech con base a Shenzen. Prima del vicepremier sarà convocato il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, cui potrebbero essere rivolte domande sul tema. Negli ambienti di intelligence italiana c’è una certa preoccupazione sul ruolo dominante nella fornitura della banda larga da parte dell’azienda cinese, che assieme a Zte è stata esclusa dalla gara per il 5G sia negli Stati Uniti che in Australia per ragioni di sicurezza nazionale.
Perché se ne parla solo ora? L’inchiesta di Bloomberg sui microchip montati dai servizi segreti cinesi sui dispositivi della Supermicro per spiare gli Stati Uniti fa senz’altro da cassa di risonanza. D’altronde solo una settimana fa Luigi Di Maio ha accolto con tutti gli onori alla Camera Deputati i vertici Huawei per l’ “Huawei 5G Summit”, salutando con favore i loro investimenti nella banda larga in Italia e assicurando la volontà del governo di “intensificare sempre più il legame con il popolo cinese e la sua realtà produttiva”. La convocazione del Copasir però non viene fuori dal nulla.
Già in passato gli 007 italiani avevano messo in guardia il governo dall’avanzata della multinazionale hi-tech, che è privata (il 98,6% delle azioni, ricorda Il Sole, è dei dipendenti) ma nondimeno riceve cospicui finanziamenti da alcune delle più grandi banche governative cinesi come Bank of China e Industrial & Commercial Bank of China e ha come fondatore un ex ufficiale dell’esercito di liberazione popolare cinese, Ren Zhengfei.
Una prima avvisaglia del rischio connesso all’apertura delle porte a Huawei in Italia arrivò nel 2012, quando un report del Dipartimento di Informazione e Sicurezza (Dis) consegnato all’allora ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera sollevava dubbi sulla sicurezza di contratti con la pubblica amministrazione dell’azienda cinese, che già vantava accordi con asset strategici come Terna, Enel, Poste Italiane, Fastweb, Ferrovie dello Stato e soprattutto con Telecom Italia, con cui, ricorda Gatti su Il Sole, nel 2008 ha siglato un’intesa per gestire la rete di fibre sottomarine MedNautilus e nel 2012 un’accordo pluriennale il cui valore fu stimato fra 1 e 3 miliardi di euro. Solo un anno dopo, in un’intervista a Libero, il vicepresidente del Copasir Giuseppe Esposito (Pdl) tornò sulla vicenda Telecom-Huawei auspicando l’istituzione di “una task-force per monitorare quanto sta accadendo nei grandi gruppi” (è tornato oggi sul tema in un’intervista a Formiche.net). L’appello rimase inascoltato, ma le raccomandazioni dell’intelligence proseguirono senza sosta.
È del 2014, anno prolifico per le acquisizioni dei cinesi nelle infrastrutture italiane, un nuovo report del Dis che alza l’asticella. Per la proprietà e la gestione delle reti gli 007 italiani suggerivano per l’appunto di seguire il modello del Regno Unito, che aveva permesso a Huawei di crescere senza però sedere in cabina di regia. Ancora una volta il suggerimento cadde nel vuoto. In effetti il Movimento Cinque Stelle tuonò contro il governo Renzi dopo quell’estate di acquisizioni cinesi. Sul blog i pentastellati esprimevano sdegno per la cessione del 35% di Cdp Reti a State Grid: “Governi stranieri sulla rete elettrica italiana, sulle informazioni che su essa viaggiano, e anche sui dati sensibili della clientela, che riguardano tutta la comunità nazionale!”. Ora che sono al governo, però, il Dragone non fa più paura.