Siamo realisti. Quello di ieri è stato un tremendo “uno–due”, per usare un linguaggio pugilistico, che ha scosso le certezze del governo. Il salto degli spread e la dura contrapposizione con l’Europa, segnata dal prevalere dei falchi (Juncker e Dombrovskis) sulle colombe (Moscovici) ha indotto a più miti consigli. Nella riunione ristretta, convocata a Palazzo Chigi e durata l’intera mattinata, si è provveduto a correggere le cifre del Def. Il deficit di bilancio, a quanto è dato da sapere, dovrebbe scendere dal 2,4 per cento del 2019 al 2,2 per cento del 2020 ed al 2 per l’anno successivo. Modifiche che dovrebbero assicurare una più celere riduzione del rapporto debito–Pil. Anche se tutto richiede il beneficio di una verifica: possibile solo quando la Nota di aggiornamento verrà alla luce. Solo allora si potrà avere contezza degli effettivi scostamenti dal tendenziale elaborato dal precedente governo. Su quella base, infatti, nonostante il previsto aumento del deficit, la riduzione del rapporto debito–Pil era comunque assicurato.
Nel frattempo, la risposta dei mercati è ancora segnata dall’incertezza. Con gli spread che, a metà mattinata, avevano raggiunto nuovamente quota 300 e la borsa che, in apertura aveva reagito bene, con un rimbalzo dell’1,4 per cento, progressivamente eroso nelle ore successive. Ciò che indispettisce, sopra ogni altra cosa, è il protrarsi nel tempo dell’attesa di una risposta che ponga, finalmente, un punto fermo. Se il confronto all’interno della compagine governativa si fosse svolto una settimana fa, non saremmo giunti a questo punto. Ed invece il rischio del mancato rispetto delle date canoniche, per la trasmissione dei documenti in Parlamento, dà il segnale di una sciatteria che è figlia di contrasti profondi tra le varie anime del governo. Non solo tra politici e tecnici, ma anche all’interno delle due forze politiche che ne sono gli azionisti di riferimento.
Ma non è stata solo questa l’unica ingenuità. Nei numeri recati dalla Nota di variazione del Def quel che conta realmente è la previsione di deficit per il 2019. La sua proiezione triennale è, per così dire, un’indicazione retorica. Destinata ad essere modificata a seconda di quello che sarà l’andamento ciclico futuro dell’economia e l’effettivo dinamismo delle relative poste di bilancio: tanto sul fronte delle entrate (si pensi alle privatizzazioni solo ipotizzate negli anni passati) che su quello delle uscite. Specie se si considera la spesa in conto capitale, il cui tiraggio non deriva da quanto stanziato a bilancio, ma dalla effettiva capacità (molto scarsa) nel realizzare le opere promesse.
In tutti questi anni, pertanto, le cifre del bilancio triennale, per gli anni successivi al primo, continuamente riviste nel susseguirsi dei cicli contabili, non hanno avuto peso alcuno. Tanto valeva allora indicare, anche questa volta, un deficit in calo progressivo, senza voler necessariamente mettere un dito nell’occhio della Commissione europea, proponendo quel 2,4 per cento costante nel triennio. Non a caso Emmanuel Macron, nel decidere di aumentare il deficit, si è limitato a comunicare solo l’aumento di 0,2 punti di Pil per il 2019. Mentre per il futuro provvederà la divina provvidenza. Giovanni Tria è stato, invece, costretto a seguire le indicazioni di Luigi Di Maio e smentire sé stesso. Non una grande bella figura per sé stesso, ma soprattutto per l’Italia.
Perché questo sia avvenuto rimane ancora un piccolo grande mistero. Una prima possibile spiegazione è tutta interna al gioco politico. La voglia dei 5 Stelle di riaffermare il proprio primato. In caduta di consensi, stando almeno agli ultimi sondaggi, hanno voluto dimostrare che i “tecnici”, espressione del vecchio establishment, dovevano chinare la testa e piegarsi al volere del “popolo” di cui il Movimento è il vero rappresentante. Almeno nella testa dei militanti. Per ottenere un risultato tangibile era necessario smentire pubblicamente il ministro dell’economia. E metterlo alla gogna. Indifferenti alle assicurazioni da questi fornite, a nome del governo italiano, alla stessa Commissione europea, dalla quale aveva ottenuto, dopo una complessa e faticosa negoziazione, maggiori margini di flessibilità.
Altro fronte su cui combattere era quello degli equilibri politici all’interno della compagine governativa. Era necessario tentare di fermare la “resistibile ascesa” della Lega. Ridimensionare la figura di Matteo Salvini, la cui leadership stava mettendo in ombra il peso dell’altro vice presidente: Luigi Di Maio. Ed ecco allora cambiare improvvisamente registro. Passare bruscamente da una prospettiva in cui il salario di cittadinanza era subordinato al funzionamento dei Centri per l’impiego, con un’attesa almeno di un anno, alla pura e semplice fornitura di quel bancomat – la tessera elettronica – che dovrebbe garantire un sussidio “senza se e senza ma”. Che poi gli stanziamenti richiesti fossero del tutto insufficienti per la definitiva sconfitta della povertà era solo un piccolo incidente di percorso. L’importante era comunicare che la manna sarebbe caduta dal cielo in tempo utile per le prossime elezioni.
C’è infine un’ultima spiegazione, di cui si è fatto nuovamente interprete il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi, il quale è convinto che “l’Italia con una sua moneta risolverebbe gran parte dei propri problema”. Come ha detto, recentemente, nel corso di una trasmissione di “Radio anch’io”. Elemento ritornante nella pubblicistica più recente. Che, francamente, lascia relativamente indifferenti. Per giungere all’’Italexit ci vorrebbe un genio del male, come Boris Johnson, in Gran Bretagna. Che al momento non si vede all’orizzonte. E anche qualora si manifestasse, per uno scherzo del destino, non esisterebbe comunque quel retroterra imperiale che è stata la grande illusione della Brexit.