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La Baviera, la fine dei partiti tradizionali e il futuro dei popolari

assia messori

Le elezioni in Baviera rappresentano un campione interessante per comprendere le linee tendenziali che muovono attualmente l’elettorato tedesco. Si tratta, infatti, di uno dei Lander più conservatori della Germania, con un’alta presenza di cattolici tra i cristiani, e nel quale vi è stata fino ad ora la predominanza politica della Csu, partito centrista gemello della Cdu.

Il mosaico che emerge è un puzzle variopinto nel quale certamente escono battuti i partiti di sempre: quei gruppi politici cioè che hanno fatto nel dopoguerra la storia della Repubblica Federale Tedesca, costruendo poi insieme, da opposti punti di vista, la riunificazione nazionale, trasformando un Paese sconfitto in una potenza economica e politica alla testa dell’Unione Europea.

I socialisti possono vantare anche questa volta il primato negativo nel cataclisma elettorale bavarese, passando da quasi il 21% a poco meno del 10. I Cristiano-Democratici restano il partito maggioritario, scivolando però al 37%. A vincere la tornata non è stata tuttavia la forza di estrema destra più minacciosa e importante a livello nazionale, l’Alternativa per la Germania (che comunque supera il 10%), ma i Verdi, arrivati ad oltre il 17%.

La prova positiva del movimento ecologico si è verificata a causa soprattutto di una buona affermazione che hanno avuto alcune liste minori, in primis Liberi Elettori, divenuto il terzo partito della regione con un discreto 11 %, che umilia così l’ormai morente arco locale della Grande Coalizione.

Qual è, in fin dei conti, il significato complessivo di questo inconsueto risultato?

Prima di tutto, bisogna precisare che l’esito delle urne non è un campione interamente rappresentativo della nazione, anche perché la Germania è un Paese molto vario, con una lunga storia federalista e con grandi differenze territoriali ed elettorali. È molto probabile, ad esempio, che già in Assia, dove si vota il 28 ottobre, i consensi si distribuiscano in modo dissimile, magari con maggiore vantaggio per la destra estrema.

Di certo, guardando alla sola Baviera, vi è un dato oggettivo importante: i nazionalisti esistono, sono forti, ma non sono un’alternativa assoluta alla crisi della partitocrazia tradizionale. Quest’ultima invece, con annessi i continui tracolli dei popolari e dei socialisti praticamente ovunque, aprono altri spazi e possibilità, anche se sempre all’insegna della novità anti-establishment.

Un punto a favore dei movimenti populisti è nondimeno indubitabile. Mentre per interpretare un progetto globale, partiti come i Verdi bavaresi trovano alcune contrarietà evidenti, per esempio il non facile compito di dimostrare, fuori dal contesto locale, di poter rappresentare una sintesi credibile su tutti i temi ruggenti oggi in discussione nel mondo; la destra radicale ha invece una visione ideologica forte, sistematica, internazionale, in condizione di poter argomentare su tutto e di convincere la gente, divenendo così l’unica vera opposizione di merito e di governo all’attuale progetto europeo, potendo vantare ostilità concreta nei riguardi dell’austerità pavida e gestionale molto deludente di socialisti e popolari. La destra, insomma, può raccogliere meglio e di più la protesta oltranzista e il malcontento comune, convogliando tutto in un progetto nazionalista che è ben presente nella cultura occidentale, quantunque marginalizzato negli ultimi decenni.

Non a caso ad essere sconfitti in Baviera sono stati anche i liberali, cresciuti certamente, eppure fermi al 5 %, interpreti assai deboli della terza grande famiglia classica europea.

Quello che si può immaginare, senza grandi margini di errore, è che l’inevitabile emorragia dai grandi gruppi politici tradizionali verso politiche non convenzionali, andrà avanti e sarà intercettata specialmente dai sovranisti e dagli ultraconservatori. Ciò potrebbe presentare l’anno prossimo, dopo le elezioni di primavera, un Parlamento Europeo in radicale discontinuità rispetto a tutti quelli che dal 1979 ad oggi hanno guidato il processo di integrazione continentale.

Concretamente, insomma, i cittadini europei vogliono un’altra Europa, perché giudicano questa fallimentare. Ciò non significa, neanche se dovesse esserci una maggioranza non popolare e non socialista a Strasburgo, fatto, a dire il vero, poco probabile, che il progetto dell’Unione sfumerà in un momento e che l’Euro verrà rottamato rapidamente, ma che si avvierà una riforma strutturale delle istituzioni comuni, all’insegna di una maggiore collegialità nazionale e un maggiore peso a livello centrale degli Stati membri.

D’altronde, l’Europa di oggi non è veramente cristiana e non è minimamente federale e democratica. L’alternativa progressista ha fallito la sua missione. Perché la gente dovrebbe continuare votare per loro?

La nuova Europa delle nazioni, invece, promette di essere più identitaria, meno multiculturale, più collegiale e democratica: quindi, in tal senso, più sicura, più europea e più cristiana.

Perché gli elettori, soprattutto popolari, non dovrebbero volerla?

Il Ppe deve cominciare a ragionare in vista di una prospettiva di destra che va montando a proporzioni geometriche, piuttosto che essere il rappresentante fallito di un progressismo che non gli appartiene, e di una condiscendenza alla Sinistra che non gli è per nulla congeniale: una scelta politica insomma, quella fatta finora dal Ppe, contraria alla sua storia e ai suoi valori, oltre che giudicata inappagante dal proprio elettorato. Queste cose vanno pensate a dovere e soppesate con cura. Anche perché domani, quasi certamente, l’unica alleanza possibile a Bruxelles sarà quella tra il centro popolare e il vasto gruppo delle destre sovraniste. E ciò richiederà che la famiglia moderata torni a fare politica, recuperando la propria anima cristiana, conservatrice e comunitaria.

Il dramma è invece che i popolari non riescono a reagire a questa situazione, essendosi creato, e non solo in Germania, un complesso paradossale di sudditanza culturale nei riguardi dei socialisti, la cui sconfitta storica sta portando nel baratro l’intero sistema democratico e i valori stessi dell’Europa cristiana.

L’uscita repentina da questo stato di malattia dei popolari, in definitiva, è l’unica svolta veramente necessaria per tutti. Ma tale soluzione richiede alla politica cristiana di affrontare anzitutto culturalmente, in modo coraggioso e positivo, la sfida del nazionalismo, ritrovando le radici storiche e filosofiche del suo progetto religioso e umano: sempre che, viceversa, il grande centro non accetti, come oggi sembra fare, l’ineluttabilità materiale della disfatta, preferendo allacciare il proprio destino all’estinzione dei socialisti, piuttosto che al governo di un’Europa delle nazioni.

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