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Ecco come il Mise intende lavorare con Pechino. Il lancio della Task Force Cina

Il ministero della Sviluppo economico (Mise) guidato dal vicepremier grillino, Luigi Di Maio, ha ufficialmente lanciato la “Task Force Cina”, annunciata qualche settimana fa, nell’occasione della doppia visita cinese del sottosegretario Michele Geraci e del ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

Geraci (professore di finanza in tre università cinesi, University of Nottingham Ningbo China, New York University Shanghai e Università dello Zhejiang) ha condotto la prima riunione inaugurale e organizzativa nella Sala degli Arazzi del Mise, alla presenza, tra gli altri, dell’ambasciatore italiano in Cina, Ettore Sequi, e del suo omologo cinese in Italia, Li Ruiyu, e di Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri in rappresentanza della Farnesina (che ha chiaramente un ruolo centrale nei rapporti generali con la Cina). Tra il pubblico c’erano anche alti esponenti gialloverdi dal Mef, Interni, Lavoro e Beni Culturali: seduti, senza intervenire direttamente, ma a rappresentare l’interesse del governo italiano nel progetto.

La Task Force sarà costituita da quattro gruppi di lavoro: uno riguarderà gli aspetti macro (e macroeconomici), uno gli “hardware” (ossia i beni) e uno i “software” (i servizi, che sono un punto di riequilibrio dove le esportazioni italiane crescono in Cina) e l’ultimo la cooperazione in Paesi terzi (Africa, Medio Oriente, America Latina, che per Geraci è un asset da sfruttare sia direttamente sia come occasione per costruirsi la fiducia di Pechino). Il gruppo di lavoro costituito opererà su questioni pratiche, attraverso report settimanali che possano essere utilizzati direttamente dalle nostre imprese: la cosa principale è “fare intelligence, ossia capire continuamente quello che sta succedendo”. Dobbiamo avere “un approccio sistemico”, ripete il sottosegretario: definizione nota e già usata più volte.

Nella presentazione, Geraci ha spiegato che il mantra che segue il governo Conte è “lasciare il posto alle cose, ai fatti: fare di più e parlare di meno”, per questo l’esecutivo ha deciso di creare la Task Force Cina (Tfc), “per fare quello che in passato potevamo fare e invece non abbiamo fatto”. “Dalla mia esperienza in Cina – ha proseguito il sottosegretario – ho visto tante aziende italiane in difficoltà nel fare business, perché abbiamo sbagliato l’approccio come sistema Paese”. Il professore porta come esempio la Francia, che vende un miliardo di vino all’anno contro i 160 milioni italiani, ma cita anche la Germania o l’Olanda, altri Paesi – definiti come “i nostri concorrenti europei” – che lavorano molto di più e molto meglio con la Cina.

Con una nota precisa: “Attenzione – dice Geraci – non stiamo dicendo che abbiamo intenzione di spostare il nostro asse geopolitico verso la Cina, il governo intende tenere l’Italia sul solco classico e storico occidentale, ma quello che vogliamo è aggiungere la Cina al nostro scacchiere internazionale”. E tutto, spiega l’ambasciatore Sequi nel suo intervento, arriva in un momento “importante” per le relazioni sino-italiane: “La Nuova Era cinese (la New Era è la dottrina politica del presidente Xi Jinping, diventata qualche mese fa parte integrante della costituzione delle Repubblica popolare, ndr) si abbina con il nuovo corso del governo italiano, e lasciatemi citare Confucio: Quando spira il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento‘ “, ha detto l’ambasciatore. Impossibile non notare i richiami al governo del cambiamento – come l’esecutivo gialloverde ama farsi chiamare – e al nazionalismo trumpiano (il cui simbolo è “il Muro”, che il presidente americano vorrebbe costruire con il Messico).

Della forza delle attuali relazioni ha parlato anche l’ambasciatore cinese Li, “sono in una fase senza precedenti”. Il capo della diplomazia cinese in Italia ha calcato molto sul concetto di bilateralismo nei rapporti Roma-Pechino, sottolineando l’importanza delle visite delle delegazioni di alto livello italiane – quelle citate di Geraci, Tria e Di Maio: “Tutti i media cinesi ne hanno parlato del vostro premier in Cina”, ha detto Li riferendosi alla copertura data dai media di Stato (nota: lo ha chiamato per tre volte “premier” e non vice). Poi ha aggiunto che “nella seconda parte dell’anno” (e questo è un piacere formale fatto al nuovo governo, che in quel periodo ha iniziato il suo mandato) c’è stato anche un aumento delle delegazioni cinesi che arrivano in Italia: contatti continui, molto importanti per come la Cina vede le relazioni internazionali.

L’ambasciatore ha sottolineato anche come l’export italiano verso la Cina sia aumentato (e sembra una sottolineatura per tenersi lontano da eventuali discussioni sugli sbilanci commerciali, di cui comunque l’Italia soffre; ndr), e a quel punto ha annunciato pubblicamente, in anteprima, che su circa 1800 prodotti importati dalla Cina ci sarà un abbassamento dei dazi dal 9,8 per cento al 7,5. È questo, spiegherà più tardi Geraci, ciò che la Cina intende per “rapporto di reciprocità”: Pechino non arriva ancora ai livelli di apertura occidentali, ma dimostra comunque di far qualcosa rispetto all’enorme chiusura del passato.

E di questo s’è occupato il sottosegretario Di Stefano, che ricordando quanto “la Cina sia uno dei nostri interessi strategici nazionali”, ha sottolineato quali sono al momento le criticità – “intervento lucido, giusto parlare anche dei lati sensibili, dei rischi, delle preoccupazioni e di quello che deve andare meglio sul fronte Cina”, ci dice uno dei presenti che preferisce non essere nominato. Secondo il sottosegretario della Farnesina, quello che l’Italia deve fare con i cinesi è una programmazione a medio-lungo termine, che però deve portarsi dietro da Pechino volontà su un “maggiore accesso per le nostre aziende, migliore equilibrio sullo sbilancio commerciale, tutela della proprietà privata, armonizzazione degli standard di qualità del prodotto, distorsione alla concorrenza creata dalle aziende di stato, miglior accesso alle gare pubbliche, massima trasparenza sulle normative europee”.

A rimarcare questi concetti, secondo la reciprocità invece intesa dagli italiani (e dagli occidentali in genere), è stata la presentazione del Position Paper della European Union Chamber of Commerce in China (Eucc, Camera di commercio europea per il mercato cinese), che il Mise ha voluto ospitare all’interno della prima riunione della Task Force. A presentare il report, basato su dati raccolti direttamente tra migliaia di ditte europee (e dunque anche italiane) operative in Cina, c’erano due dei vicepresidenti, Massimo BagnascoCarlo Diego D’Andrea, i quali hanno sottolineato che tra le principali difficoltà che le aziende europee trovano in Cina c’è la chiusura del mercato e il lento processo di riforme interno, ma in questo momento e nel prossimo breve periodo potrebbero esserci anche gli effetti della politica di dazi decisa dall’amministrazione Trump.

“I cinesi ci chiedono di essere pragmatici, non ideologici: dobbiamo tenerci lontani da certe questioni come il rapporto di Pechino con gli Stati Uniti e non possiamo pretendere di cambiare i cinesi. D’altronde non possiamo lamentarci: lo ha detto anche Geraci, la Francia esporta quasi sette volte il vino che noi esportiamo, e anche loro si trovano ad avere a che fare con quel tipo di visione di mercato e di Stato che incontriamo noi. Perché loro lavorano meglio?”, ci dice una delle persone presenti, che lavora nel settore del business con la Cina e che per ragioni personali ci prega di lasciare l’anonimato.

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