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Aziende straniere in Italia, ecco perché serve una commissione d’inchiesta. Parla Urso (Copasir)

urso

“Serve attivare quanto prima una Commissione d’inchiesta parlamentare sulle azioni di Paesi ed aziende straniere – in particolare quelle cinesi – volte ad acquisire il patrimonio finanziario, tecnologico e industriale italiano. In gioco ci sono implicazioni economiche, ma anche di sicurezza, soprattutto in relazione a questioni strategiche come il 5G”. A lanciare la proposta (e l’allarme) in un’intervista con Formiche.net è il senatore Adolfo Urso (Fdi), già vice ministro del dicastero delle Attività produttive con delega al Commercio estero (dal 2001 al 2006 nel governo Berlusconi), oggi vice presidente del Copasir, il comitato parlamentare che vigila sull’intelligence che proprio ieri ha ascoltato il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio.

Senatore Urso, da tempo lei solleva il tema delle acquisizioni straniere di aziende italiane e ieri ha parlato della necessità di attivare una Commissione d’inchiesta parlamentare sulla questione. Perché?

C’è innanzitutto un dato economico. Nell’ultimo rapporto Istat sulle multinazionali si rileva che le aziende italiane comprate da stranieri licenziano in media il 18% di dipendenti durante il primo anno e, sebbene comprensibile a fronte di una ristrutturazione, non è poco in Paese come il nostro con forti problemi di occupazione. In più, le imprese estere che hanno acquisito aziende italiane hanno una bilancia fortemente negativa. Contribuiscono al circa 40% dell’import italiano e a circa il 23% dell’export italiano. Com’è possibile in una nazione come la nostra, che ha una bilancia commerciale complessivamente positiva? La mia spiegazione è che quando un’impresa italiana viene comprata da azienda straniera non si rivolge più alla nostra filiera, ma a quella internazionale della casa madre, impoverendo i distretti italiani. Non bisogna demonizzare le acquisizioni quando portano valore, ma nemmeno tralasciare questi aspetti. Ma ci sono anche fondati timori per la nostra sicurezza.

In che casi le acquisizioni straniere possono rivelarsi un rischio per la sicurezza nazionale?

L’ultima relazione del Dis al Parlamento di febbraio evidenzia con chiarezza che alcuni Paesi, col supporto dei loro apparati di intelligence, stanno utilizzando una strategia definita “predatoria” per acquisire il patrimonio finanziario, tecnologico e industriale italiano. Il quadro mi sembra allarmante, ed è per questo che ho deciso di presentare questa proposta. Abbiamo bisogno di capire cosa sta accadendo, ma soprattutto come reagire. I casi sono molteplici.

Può citarne qualcuno?

Ormai siamo nell’ordine delle decine, se non delle centinaia, agevolate dalla debolezza intrinseca del nostro sistema industriale. I casi più noti sono quelli delle aziende del lusso, di quelle bancarie e finanziarie, eno-gastronomiche e, più in generale, delle nostre eccellenze manifatturiere. Ma il perimetro si sta allargando, in particolare a campi tecnologici delicati.

Quali sono gli aspetti tecnologici da monitorare con più attenzione?

Penso soprattutto alle telco e al delicato tema delle reti. Trovo un azzardo non considerare i rischi – geopolitici ed economici – collegati a un ruolo cinese in Italia nella tecnologia 5G. Ma ciò che è più urgente, a mio avviso, è cambiare mentalità. Ci sono ambiti che apparentemente non sono sensibili ma che – grazie all’introduzione di componentistica informatica estera o di sensori – rischiano di esserlo. Uno degli esempi recentissimi è quello di Permasteelisa, azienda italiana di costruzioni acquistata dalla conglomerata giapponese Lixil Corporation.

Quest’ultima voleva venderla alla cinese Grandland, ma l’acquisizione è stata fermata dal comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, il Cfius, in virtù del fatto che Permasteelisa, una multinazionale, è presente anche negli Usa dove genera – scriveva ieri il Sole 24 Ore – circa il 40% delle sue entrate. Ma è la ragione dello stop la cosa più interessante. L’azienda produce elementi di edilizia esterna e quindi sembrerebbe avere poco a che fare con la sicurezza nazionale. Tuttavia i funzionari americani hanno considerato il rischio che i lavori sulle strutture di alcuni palazzi statunitensi potrebbero costituire l’occasione per inserire microfoni e spie. Un dubbio legittimo, che però da noi nessuno ha posto.

Cosa dovrebbe fare l’Italia per proteggersi?

In primo luogo analizzare la portata del problema ed è qui che entra in gioco la Commissione d’inchiesta che però servirà a poco se non sarà seguita da una piena consapevolezza del fenomeno e, soprattutto, da una politica industriale che ci metta al riparo da questi pericoli. Due esempi su tutti. Alcuni Paesi europei, Francia e Germania, hanno rivisto le regole della loro Golden Power, rendendole più stringenti. Perché da noi non se ne discute? E poi, proprio in questo momento, si discute in Europa di un regolamento europeo che dovrebbe servire, nelle intenzioni, a proteggere gli Stati membri dall’aggressività di attori stranieri, in primis la Cina. Sarebbe bene che l’Italia non avesse titubanze su questo tema.

Lei fa riferimento soprattutto ad acquisizioni cinesi. Cos’è che la preoccupa?

La Cina è un gigante con grandissime capacità di investimento, ma soprattutto con un’economia sproporzionata e asimmetrica – nelle dimensioni e nella governance – rispetto a quella occidentale, elementi che in questo momento sono alla base delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Pechino. Questi attriti non credo vadano sottovalutati, perché a mio avviso le ragioni di Washington sono fondate. L’amministrazione Trump ha rivisto in modo rivoluzionario il trattato commerciale nordamericano Nafta, inserendo sanzioni per chi non rispetta le regole, comprese quelle sul dumping sociale, ovvero su salario, diritti sindacali e altro.

Inoltre introduce la norma che impone ai membri del trattato – Usa, Canada e Messico – di discutere con i partner la sottoscrizione di accordi con altri Paesi, soprattutto quelli con un’economia dalle caratteristiche fortemente squilibrate rispetto alla regione. Mi sembra un enorme passo in avanti, nonché un modello che l’Unione europea dovrebbe considerare a partire dai trattati in discussione proprio in questo momento. Non possiamo competere con potenze industriali come la Cina supportate da aziende statali se non abbiamo un sistema di regole che ci renda competitivi. Per non parlare del fatto che a noi non è concesso investire in settori strategici di quel Paese, mentre noi concediamo senza titubanze che ciò accada nei nostri confini. Serve reciprocità.

Eppure l’attuale esecutivo sembra puntare molto sul rapporto con la Cina. La considera una strategia sbagliata?

Ogni stimolo al libero commercio è il benvenuto quando consente un rapporto equilibrato. Dobbiamo pretendere che le nostre aziende – non solo quelle italiane ma quelle europee – possano avere in territorio cinese le stesse opportunità. A questo aggiungo che ci sono ambiti, come quelli a elevato know-how tecnologico e con potenziali ripercussioni per la sicurezza nazionale, dai quali sarebbe bene tenere fuori, almeno per il momento, collaborazioni che potrebbero costituire un rischio non solo per il nostro Paese ma anche per i nostri rapporti internazionali e diplomatici.


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