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Così l’influenza russa si fa sentire nei Balcani e Paesi Baltici

Di Federica De Vincentis
Brookings

L’influenza della Russia continua ad essere forte nei Balcani e nei Paesi Baltici. A dimostrarlo sono alcuni recenti episodi che confermano le pressioni di Mosca per orientare – anche nel cyber space – gli equilibri politici e i processi democratici nel Vecchio continente.

LE ELEZIONI IN LETTONIA

Il caso più eclatante è senz’altro quello della Lettonia, dove il partito filorusso Concordia – finora tenuto fuori dalla stanza dei bottoni – ha vinto le elezioni politiche con il 19,9% dei voti, davanti alle due formazioni populiste Kpv Lv (14.06%) e Nuovo Partito Conservatore (13,6%); l’alleanza liberale e filo-occidentale For/Development ha ottenuto il 12,04% delle preferenze.
Il risultato non assicura a Concordia di poter governare (l’ipotesi è improbabile), ma fa riflettere, soprattutto per la fermezza con la quale, in questi anni, i Paesi Baltici, che prima facevano parte del blocco sovietico, hanno espresso preoccupazione per l’attivismo di Mosca, a cominciare dall’invasione della Crimea e alla crisi ucraina.
In questo contesto, un elemento in più da considerare è il brusco calo di consensi (6,7%) per il partito liberal-conservatore, una volta molto forte e parte della maggioranza uscente, del vicepresidente della Commissione europea ed ex premier del Paese, Valdis Dombrovskis, considerato un ‘falco’ dell’austerity.
Non sono mancate, rileva il DfrLab – il laboratorio di ricerca dell’Atlantic Council focalizzato su fake news e interferenze online -, azioni di disturbo da parte di hacker ritenuti vicini a Mosca. In particolare, durante il giorno delle elezioni parlamentari del 6 ottobre, il suono dell’inno nazionale russo e le immagini del Cremlino, di Vladimir Putin, della bandiera e di un soldato russo sono apparsi all’apertura della prima pagina del social network lettone Draugiem.lv.

IL QUADRO BOSNIACO

Stesso trend in Bosnia Erzegovina, dove Milorad Dodik – nazionalista, filorusso e leader dei serbo-bosniaci – è in testa (anche se l’opposizione non ha ancora riconosciuto la sconfitta) con circa il 56% dei voti nella corsa per un posto nella presidenza tripartita del Paese, che condividerà con i leader della comunità musulmana e di quella croata.
Dodik, da anni leader della Republika Srpska, una delle due entità post-conflitto in cui è stata diviso il Paese, aveva anche minacciato un voto secessionista, una mossa che avrebbe minato alle fondamenta il delicato accordo di Dayton raggiunto dopo la guerra 1992-1995. Adesso dovrà condividere la presidenza del Paese, che ruota ogni otto mesi, da lui stesso definita “un concetto fallito”. Un ingresso, quello di Dodik, che potrebbe far allontanare le già esigue possibilità della Bosnia di aspirare all’integrazione europea (una linea che gli esperti definiscono “musica” per le orecchie di Mosca).

IL CASO MACEDONE

Infine c’è il caso macedone. Nelle scorse settimane – nel Paese balcanico, finora riconosciuto da alcune nazioni come Fyrom – circa 1,8 milioni di persone sono state chiamate ad approvare un importante referendum, quello per approvare la nuova definizione di Repubblica della Macedonia del nord in conformità all’intesa siglata a luglio con la Grecia, chiudendo una disputa di tre decenni con Atene, passaggio propedeutico per l’entrata di Skopje in Ue e Nato. L’affluenza, che il premier Zoran Zaev aveva previsto massiccia – ha raccontato Formiche.net</em> – non è arrivata nemmeno al 35% (il 90% ha comunque votato sì). Il risultato non pregiudica l’accordo né il percorso di avvicinamento del Paese a Bruxelles e all’Alleanza Atlantica, ma lancia un messaggio chiaro. Dietro questa astensione, infatti, potrebbe esserci ancora una volta la mano di Mosca.
Sempre il DfrLab ha pubblicato i risultati di alcune analisi dalle quali è emerso che, in vista del referendum, ha preso piede su Twitter e Facebook una campagna di estrema destra denominata #Бојкотира (che si traduce in #boicottare).
L’hashtag, ha spiegato un articolo dedicato alla vicenda, aveva raccolto fino al 14 settembre circa 23mila e 800 menzioni, di cui 19mila e 300 erano costituite da retweet (l’80.9% del totale). Ciò, a detta degli esperti del laboratorio, suggerirebbe che il messaggio è stato fortemente amplificato – attraverso una rete di influencer appartenenti alla galassia dei populisti anti-europeisti – che hanno sostenuto la campagna contro il referendum, ma senza sviluppare molti messaggi originali, almeno su Twitter.
Un vero e proprio kit di propaganda digitale – slogan, hashtag, liste di tweet preparati – è stato pubblicato su siti macedoni di estrema destra come mn.mk e bojkotiramfeed.co. E, secondo le ricerche, il picco dei messaggi su #boycott sarebbe stato registrato tra il 5 e l’8 settembre (3mila e 900 tweet), proprio quando Angela Merkel e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si sono recati in Macedonia per sostenere l’appuntamento elettorale.


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