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Referendum Macedonia, il soft power russo ha avuto i suoi effetti?

Più che un referendum storico, sembra un matrimonio forzato. Di certo la prova che non solo l’Unione Europa è in crisi e che l’ingresso nel club di Bruxelles non è più così allettante come una vota, ma anche che i Balcani si confermano una terra di frontiera insidiosa, che non ha dimenticato il passato recente fatto di conflitti e divisioni radicate nella sua storia, a partire dalla caduta dell’Impero Ottomano.

L’insegnamento, che quasi sicuramente Bruxelles non saprà cogliere, arriva dalla Macedonia, dove ieri avrebbe dovuto essere una giornata storica e invece verrà ricordata come un tonfo. Circa 1,8 milioni di persone sono state chiamate ad approvare un referendum. L’affluenza, che il premier Zoran Zaev, (in foto), aveva previsto massiccia, non è arrivata nemmeno al 35%. Dove però il 90% ha votato sì. Ne deriva che un giorno ci si ricorderà dell’ingresso della Macedonia nella Nato e in Ue per opera di una minoranza. Un flop su tutta la linea, che rischia di ripetersi anche in Parlamento. Una strategia suicida anche da parte di Bruxelles, che non poteva trovare modo migliore per dimostrare di non essere più un obiettivo strategico. Ma come si è arrivati a un risultato del genere? Diciamo che già da come era posto il quesito referendario ci sarebbe molto da dire.

Ufficialmente, la consultazione avrebbe dovuto essere solo sulla modifica del nome, da Repubblica di Macedonia a Repubblica di Macedonia del nord, per ratificare l’accordo firmato nel giugno scorso con il premier greco Alexis Tsipras. E qui, a proposito di storia e di fratture, si torna alla notte dei tempi. Atene non ha mai accettato che, dal 1991, con la dissoluzione della ex Jugoslavia, la Macedonia si sia appropriata di un toponimo che appartiene a una regione settentrionale dell’Ellade e alla storia della civiltà classica.

Una disputa andata avanti 27 anni e davanti alla quale forse Filippo il Macedone e Alessandro Magno avrebbero sorriso, se non altro per come sono ridotti i loro territori oggi, ma che è stata per anni una spina nel fianco per la politica regionale e lo è diventata anche per la Nato e la Ue quando si è capito che l’ex repubblica jugoslava poteva essere una pedina importante in chiave antirussa.

Mosca lo ha capito da tempo e visto che una Macedonia membro della Nato potrebbe infastidirla, e non poco, da tempo cerca di esercitare un soft power nei circoli politici ed economici di Skopje. Il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, ha ovviamente negato ogni coinvolgimento, ma il Partito Macedonia Unita, legato al Cremlino è stata una delle voci principali del boicottaggio, insieme con movimenti nati sulla rete e che si sono trasformati in una macchina di comunicazione politica micidiale.

Zaev pensava che la promessa di un futuro prospero bastasse, ma non ha tenuto conto di alcuni fattori. Il primo, come dicevamo sopra, è come è stato posto il quesito. Chiedere di rinunciare al proprio nome, sottolineando, anche piuttosto chiaramente, che era la conditio sine qua non per entrare nella Nato e nella Ue, è stato percepito dalla popolazione, sulla quale soffiano forti venti nazionalisti e sovranisti, come un ricatto che non si doveva accettare. Da qui il risultato deludente. Che però rappresenta un grosso guaio per tutti, tranne che per Mosca, ovviamente.

Zaev dovrà fare ratificare il risultato referendario dal parlamento con molta fatica e consapevole di avere il 65% dell’opinione pubblica contro. Tsipras, l’altra grande anima dell’accordo, rischia di avere problemi con Anel, il partito di destra che regge la fragile coalizione governativa e che non era contento del compromesso raggiunto con Skopje. Ma l’intesa serviva per permettere ad Atene di ristrutturare il suo debito e adesso che l’altra parte l’ha parzialmente affossata, il giovane leader ellenico potrebbe andare al voto anticipato. La Nato potrebbe perdere una pedina importante. Difficile quantificare il danno per la Ue. Di certo Bruxelles non è più vista come un obiettivo da raggiungere come una volta, ma occorre anche aggiungere che la Macedonia è ancora molto indietro nell’adeguamento a parecchi standard europei e che quindi la sua adesione sarebbe comunque parecchio tirata.

La vicenda macedone dovrebbe insegnare che, se proprio in geopolitica non si riescono a fare matrimoni d’amore, converrebbe evitare quelli forzati. E che i Balcani sono ancora una terra di scontro, in costante mutamento, con scosse che arrivano dal passato recente, che sono tutto fuorché di assestamento e che Bruxelles, tanto per cambiare, ha capito fino a un certo punto. La strategia di portare alcuni suoi Paesi sotto l’ombrello europeo, fatta in questo modo, solo con scambi e baratti, non paga e rischia di provocare ancora più problemi a una Ue già abbastanza traballante.

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