Per saperne veramente di più, dovremo aspettare la denuncia di Luigi Di Maio alla Procura della Repubblica. Che non verrà, visto che il decreto legge fiscale – il corpo del reato – giace ancora in qualche stanza di Palazzo Chigi. In attesa che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di ritorno da Bruxelles, possa verificarne il contenuto normativo ed eventualmente stralciare, dal famigerato articolo 9, la parte relativa allo scudo penale (non punibilità) per i reati di riciclaggio ed autoriciclaggio. Vicenda paradossale, quella a cui abbiamo assistito. Con il vice presidente che denuncia l’imbroglio. Afferma che il decreto è stato già trasmesso alla Presidenza della Repubblica, per il seguito dell’iter. E dal Quirinale si risponde che quel documento non è mai pervenuto. Una sciatteria che la dice lunga sullo stato confusionale che regna all’interno del governo. Evidentemente Di Maio non conosce il numero di telefono del sottosegretario di Palazzo Chigi, con il quale parlare, prima di alimentare l’ennesimo caso di ordinaria follia.
Si comprende allora l’ira e lo sconcerto di Giancarlo Giorgetti, nel sentirsi chiamato in causa. Tanto più se si tiene conto dei vari retroscena, secondo i quali lo stesso Di Maio lo avrebbe, per così dire, destituito: comunicando a Sergio Mattarella che il sottosegretario “non rappresenta” più “la linea ufficiale del governo”. E quindi non può più essere l’ufficiale di collegamento con il Quirinale. Motivo recondito? Altro gossip: i suoi rapporti con Mario Draghi e quella cintura di sicurezza che vorrebbe avvolgere e depotenziare la “manovra del popolo”. Forzature della stampa? Fake news? Può essere. Ma è il contesto che le legittimano. Nella guerra solitaria del capo politico dei 5 stelle contro tutti e tutto, nessuno può sentirsi al sicuro. Nemmeno una personalità come Giancarlo Giorgetti: una vita spesa al servizio delle Istituzioni. Con quel garbo e quell’equilibrio – possiamo testimoniarlo personalmente – che lo ha sempre caratterizzato.
Ma perché tanta animosità, destinata inevitabilmente a generare errori? Una spiegazione possibile va ricercata nel montare dei contrasti all’interno della stessa coalizione. Il varo, seppur provvisorio, del decreto fiscale è stato “calvario”. Frase attribuita dal Corriere della sera allo stesso sottosegretario. Le posizioni originarie erano quanto mai distanti. Tant’è che la montagna, alla fine, ha partorito un topolino. Ed il condono, ma non bisogna chiamarlo in questo modo, si è trasformato in un condonino. I tetti iniziali (un milione) sono stati ridotti a 100 mila euro. Cifra oltre la quale non si potrà andare. Per poi salire nuovamente, avendo previsto che questo tetto vale per ogni singola tipologia di imposta evasa. Insomma un tira e molla, all’interno del quale è logicamente possibile che si sia tentato di aggiungere quel “di più” che lo stesso Di Maio è stato poi costretto a denunciare.
La verità è che tutto sarebbe stato lineare se il perno della “manovra del popolo” fosse stata quella riforma fiscale, che il popolo (quello vero) aspetta da anni. Ed il condono, come logico complemento di un percorso. Non si dimentichi che il primo tentativo – le due sole aliquote dell’Irpef – risale al 2001 con la legge delega, voluta da Giulio Tremonti. Approvata in Parlamento, ma rimasta lettera morta, per la dura opposizione della sinistra di allora. Mai entrata in vigore a causa della mancanza dei decreti legislativi che avrebbero dovuta tradurla in pratica. Se i 118 miliardi di maggiore debito che si avranno nei prossimi tre anni, per effetto della stessa “manovra del popolo”, fossero stati utilizzati per abbattere il carico erariale, l’Irpef avrebbe potuto subire un taglio pari al 70 per cento. Valori che danno l’ordine di grandezza di quanto si poteva fare ed invece non si è fatto per inseguire la strada del sussidio generalizzato, nelle forme del salario di cittadinanza. Assistenza invece che sviluppo. Ci si può poi meravigliare, allora, se tutto alla fine si incasina?
Nella presa di posizione di Luigi Di Maio fanno, tuttavia, capolino altre preoccupazioni. La complicata arte del governo, anche per chi ne è completamente digiuno, comporta comunque scelte difficili. Specie per chi non ha preparato alla bisogna il proprio elettorato di riferimento. Da che mondo è mondo, la politica non è solo rappresentanza. Portavoce dei cittadini. È soprattutto pedagogia: deve contribuire ad un’educazione civica, per facilitare, per quanto possibile, la soluzione dei problemi. Non può far leva solo sulla rabbia o la giusta indignazione per le carenze del passato. La grande spinta che ha contribuito, in modo determinante, alla vittoria dei Movimento. E che lo stesso Di Maio alimenta, scientemente, con i suoi continui attacchi contro ogni cosa abbia la parvenza di un’Istituzione. Che sia la Banca d’Italia o la Commissione europea poco importa. Ed ora la presidenza del Consiglio, dopo le minacce nei confronti dei tecnici di Via XX Settembre.
Questa strategia funziona – non sapremo dire fino a quando – nei confronti del voto di opinione. Cattura, in altre parole, coloro che si sono allontanati dalla politica attiva o lo sono sempre stati. Per i militanti, invece, o gli attivisti, come i grillini si definiscono, è un’altra storia. In questo caso, la base del Movimento chiede coerenza. Se avete preso voti contro la Tap (l’oleodotto pugliese) – ad esempio – non potete rimangiarvi la parola ed ora acconsentire al progetto. Se lo fate, i deputati eletti dai “No tap” – questa la richiesta – devono dimettersi. Avete gridato ai quattro venti “o-ne-stà”? Ed allora non potete consentire al condono. Quindi limitate al massimo le pretese della Lega (cosa già avvenuta), ma, soprattutto, alzate continuamente il prezzo per tranquillizzare coloro che sono già in agitazione. L’importante è evitare che un dissenso, anche se limitato, possa avere un effetto valanga e innescare fenomeni di disaffezione molto più estesi.
Luigi Di Maio dimostra di essere consapevole dei rischi di possibili smottamenti e cerca di arginarli con iniziative mediatiche di dubbio effetto. Forse conterrà le perdite. Ma con quali conseguenze sulla tenuta del Paese, in balia di un governo sull’orlo di una perenne crisi di nervi? Esattamente un mese fa gli spread sui Btp a 10 anni erano pari a 212,5. Oggi quotano 310. Su base annua quella differenza di 100 punti significa una maggiore spesa per interessi di almeno 2 miliardi, se non di più. Maturata solo in 30 giorni. Fino a quando si può andare avanti?