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L’inutile derby e la corbelleria del deficit “a prescindere”

Se fossimo così sicuri che un maggior deficit di bilancio, non qualificato, sia in grado di produrre sviluppo e compensare, attraverso questa via il maggior debito, perché fermarsi al 2,4 per cento? Potremmo puntare sul 4 o il 5 per cento. O anche più in alto. Non c’è limite alla fantasia o a quell’immaginazione che i vecchi sessantottini volevano al potere.

Chi sostiene queste teorie dimentica l’esperienza degli anni ‘70. Quando, appunto, il deficit di bilancio era una sorta di variabile indipendente. Come la dinamica salariale, secondo l’espressione di quel gentiluomo che rispondeva al nome di Luciano Lama. Ma che, in questo, caso si sbagliava. Ci sono voluti anni per combattere l’inflazione alimentata da quelle politiche ed il conflitto distributivo che recava in grembo. Nonostante, allora, vi fossero più strumenti per governare il fenomeno.

La Banca d’Italia, prima del famoso “divorzio”, comprava i titoli del Tesoro, che rimanevano invenduti. Ciò che dovrebbe fare ora la Bce, secondo le richieste di Paolo Savona, per contenere l’aumento degli spread, come se questi ultimi non riflettessero la situazione reale del Paese. Ma fossero solo frutto del gioco di una cattiva speculazione.

La lira, sempre in quegli anni, era ballerina. Si svalutava o rivalutava a seconda di complesse alchimie: il rapporto dollaro – marco, l’evolversi della congiuntura, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Quest’ultima era il termometro che indicava lo stato di salute del paziente. Il deficit stava ad sottolineare un eccesso di consumi interni. Un surplus la troppa lesina. Nel primo caso seguiva una caduta del cambio, nel secondo una rivalutazione.

Se non vi fosse l’euro, ma il ritorno alla moneta nazionale, quest’ultima tenderebbe, ora, a rivalutarsi, visto il surplus delle partite correnti con l’estero: circa il 2,5 per cento del Pil. Pura follia: visto il livello di disoccupazione esistente. Soprattutto la devastazione di tanta parte del territorio italiano, che risparmia solo i santuari del Nord in grado di esportare sui mercati internazionali.

Nella memoria collettiva, quei tempi sono ormai lontani. È comprensibile. Meno la loro totale rimozione. L’attenzione è tutta concentrata sul presente. Al 2011. Ed ecco allora direttori di giornali, che si improvvisano economisti, e schiaffeggiano in diretta autorevoli professori, che, allo studio di questi fenomeni, hanno dedicato una vita. In quegli anni l’Europa ha ordinato una folle cura dimagrante – questa l’accusa – ed il risultato è stato un aumento del debito di oltre 200 miliardi. Meglio quindi spendere, piuttosto che una vita da formiche.

Diagnosi condivisibile? Nel 2011 c’erano gli spread impazziti, un po’ più di ora. Ma non c’era solo quello. L’economia reale era a pezzi. Imprese che non avevano innovato perdevano continuamente terreno rispetto alla concorrenza estera. Di conseguenza le importazioni superavano di gran lunga le esportazioni, con un buco sempre più consistente e permanente da tempo.

La stretta fiscale fece pulizia. Favorì l’uscita dal mercato delle aziende decotte, liberando risorse per una riconversione produttiva delle imprese meno compromesse. Ed il ciclo riprese ad una velocità impressionante. Già nel 2012 il deficit con l’estero era assorbito. Poi, purtroppo, vi fu accanimento terapeutico – il vero errore di Mario Monti – ma dire che fu l’Europa ad ordinarlo, è un’evidente forzatura. Fu semmai il retroterra culturale del presidente del Consiglio a determinare un eccesso di zelo, pensando, così, di interpretare una presunta volontà superiore.

Ma per tornare all’oggi. Non ci può essere una sorta di derby tra i sostenitori e gli oppositori al deficit. La politica fiscale, come quella monetaria, deve muoversi in funzione dell’equilibrio macroeconomico. Conta naturalmente il debito. Ma conta anche il tasso di crescita dell’economia ed il sottostante livello di inflazione. La grandezza ottimale del deficit è frutto di queste complesse valutazioni. In cui cruciale è l’andamento dei conti con l’estero, che esprime il grado di utilizzo dei fattori produttivi esistenti. È basso nel caso di un surplus, fuori registro in caso di deficit. Fissarlo “a prescindere”, come direbbe Totò, è solo una gran corbelleria.

 


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