Sì, l’Italia non cresce. Non che sia una novità, più volte gli allarmi erano risuonati nei corridoi delle principali istituzioni, a cominciare da Confindustria, fino ad arrivare al Fmi. Stavolta però c’è il timbro dell’Istat e questo fa la differenza. Tutto è certificato, dunque non più semplice prospettiva negativa ma dura realtà. L’Istituto di statistica ha stimato che il pil del terzo trimestre, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è rimasto invariato rispetto al trimestre precedente. Il tasso tendenziale di crescita è stato pari allo 0,8%. Le attese del mercato, che già prevedevano un rallentamento significativo, erano per un +0,1% trimestre su trimestre e per un +0,9% anno su anno.
Il bollettino diffuso alle dieci di questa mattina non lascia molti spazi all’immaginazione. “Nel terzo trimestre la dinamica dell’economia italiana è risultata stagnante segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni. Giunto dopo una fase di progressiva decelerazione della crescita, tale risultato implica un abbassamento del tasso di crescita tendenziale del pil, che passa allo 0,8% dall’1,2% del secondo trimestre”. Questa stima, che ha natura provvisoria, è figlia soprattutto della perdurante debolezza dell’attività industriale, manifestatasi nel corso dell’anno dopo una fase di intensa espansione, appena controbilanciata dalla debole crescita degli altri settori. Visione confermata anche dagli analisti di Unicredit, per il quale il dato sul pil italiano “è ancora più debole delle attese ed è da attribuire a un rallentamento dell’industria”. Ma il punto è un altro.
Lasciando per un momento da parte la reazione dei mercati, che ieri avevano sorprendentemente incassato bene il taglio dell’outlook da parte di Standard&Poor’s, ovvero uno spread in rialzo a 302 punti base dopo i 290 di ieri e una virata al ribasso di Piazza Affari, il problema sta da un’altra parte. Domani la manovra legastellata approderà finalmente in Parlamento, dove inizierà l’iter per la sua approvazione. Contemporaneamente il governo italiano intavolerà la famosa trattativa con un’Europa che ha già bocciato la ex finanziaria, chiedendone da qui a due settimane la revisione dei saldi. Non un buon punto di partenza. Adesso però la strada è ancora più complicata perché è di fatto venuta meno l’importante contropartita della crescita.
Già le stime per il 2019 erano risicate, adesso che l’Istat ha certificato la crescita zero, come potrà l’esecutivo gialloverde giustificare un deficit al 2,4%? Con qualche decimale di pil in mano una trattativa si poteva anche imbastire. Adesso invece è facile aspettarsi da Bruxelles la richiesta di una spiegazione. Della serie ‘avete chiesto un deficit ampiamente superiore ai parametri europei e in cambio offrite una crescita pari a zero’. Una risposta bisognerà pur darla, al netto delle rassicurazioni come quella del sottosegretario Armando Siri, sul fatto che la manovra e i suoi saldi non cambieranno di una virgola.
C’è però un altro dato che deve far riflettere. Forse meno eclatante del pil, ma pur sempre rilevante. Quello della fiducia delle imprese, il cui indice è sceso a ottobre da 103,6 a 102,6. Stiamo parlando di un sistema già duramente colpito dallo spread, che ha aumentato sensibilmente il costo del denaro. Senza dimenticare che si tratta del grosso del bacino elettorale della Lega.