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Karol Wojtyla 40 anni dopo. La forza del suo sorriso e la fede nella speranza

Non si spegne, dopo quarant’anni, il ricordo di quella immagine che entrò nelle nostre vite con la potenza di un sorriso che rivelava l’eccezionalità di una storia che stava per iniziare. L’immagine che la sera del 16 ottobre 1978 dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro s’irradiò nel mondo mostrando il giovane Papa, appena eletto, la cui prima apparizione mutò nel cuore dei cristiani la percezione del Vicario di Cristo. Veniva da una terra lontana, come si premurò di dire nella breve e toccante allocuzione, per essere Pontefice della Chiesa romana. Il suo nome, incomprensibile ai più al momento dell’annuncio, Karol Wojtyla, divenne Giovanni Paolo in omaggio al suo predecessore, Albino Luciani, che aveva regnato soltanto trentatré giorni.

Quarant’anni dopo quell’elezione a sorpresa ed un pontificato straordinario sotto tutti i punti di vista durato 26 anni, 5 mesi e 17 giorni, fino al 2 aprile 2005, e segnato, tra l’altro, dalla universalità di una missione compiuta senza precedenti (104 viaggi in tutto il mondo) e da un attentato, subito il 13 maggio 1981 per mano del terrorista turco Alì Agca che due anni dopo, in prigione, volle personalmente perdonare, il Papa polacco, resta un saldo punto di riferimento. Proclamato Santo, per volontà dei suoi immediati successori Benedetto XVI e Francesco – il primo lo beatificò il 1 maggio 2011, il secondo lo canonizzò concludendo la procedura il 27 aprile 2014 imponendone la celebrazione il 22 di ottobre, giorno del suo insediamento papale, è stato il più grande interprete della crisi della modernità e nello stesso tempo il banditore di una speranza incarna dai suoi atti apostolici e da una fede visibilmente vissuta.

Giovanni Paolo II ha attraversato la sua epoca con l’ansia segnata dalla visione dell’inequivocabile tendenza alla scristianizzazione e alla perdita del sacro alla quale si è opposto con tutte le armi che aveva a disposizione, in qualche modo arrestandola, ma non vincendola del tutto. L’impresa, del resto, era impossibile perfino ad un atleta della fede come Karol Wojtyla. Ed i due pontefici che si sono succeduti hanno avuto di fronte lo stesso universo morale e culturale. Alla morte di Giovanni Paolo II si sperava che chi ne avrebbe preso il posto sarebbe stato in grado di limitare i danni dell’ateismo e del laicismo dilaganti tra la fine dello scorso Millennio ed il debutto del nuovo: Papa Ratzinger, successore naturale di Papa Wojtyla, ci ha provato in tutti i modi a combattere il relativismo e ad opporsi al nichilismo, ma di fronte ad un Chiesa nella quale il “fumo di Satana” era penetrato fino ad invaderla, ha sentito venir meno la forza minata da interne congiure ed ha clamorosamente lasciato; Papa Francesco è assorbito dalla modernità, per voi azione e cultura, e non sembra in grado di arginare le piaghe che minano la cattolicità.

Giovanni Paolo II, quarant’anni fa, si trovò a dover fronteggiare una crisi che avrebbe demolito le fondamenta stesse della Chiesa se al processo di distruzione non si fosse opposto energicamente: la Curia era divisa, la secolarizzazione post conciliare aveva fatto strame della liturgia mutando i connotati del cattolicesimo praticato, la “teologia della liberazione” apertamente s’impegnava a piegare l’insegnamento cristiano alla logica della rivoluzione marxista, stravolgendo gli stessi fondamenti del cristianesimo, mentre l’imperialismo comunista faceva ancora la sua parte e ci sarebbero voluti almeno dieci anni per sconfiggerlo, con la politica, la fede, il richiamo ai valori umani primari ed intangibili: un’opera immane alla quale il giovane Pontefice si applicò con forza e dedizione.

Non a caso Giovanni Paolo II cominciò dall’America Centrale la sua predicazione ed uno dei primi viaggi lo fece in Messico, a Puebla, dove, in occasione del Congresso eucaristico, pronunciò uno dei discorsi più forti del suo esordio pastorale mettendo in guardia la Cristianità dai pericoli incombenti. Lui, che conosceva bene il comunismo, era certamente al corrente delle disposizioni che Lenin impartì a Maxim Gorki a proposito della religione che, sosteneva, era necessario “attaccarla dall’interno, provocando dispute, lotte e scismi fra coloro che la professano, in modo da creare confusione tra i credenti, da generare dubbi, incertezze e, infine, la perdita della fede”.

L’unità della Chiesa, il ristabilimento della verità, la riproposta della Tradizione che a molti, nelle stesse istituzioni ecclesiastiche fece storcere in naso, sono stati i fondamenti del magistero di Papa Wojtyla consapevole che le divisioni avrebbero fatto naufragare la fede ed avrebbero aperto le porte a quella confusione a cui alludeva Lenin. La lezione “politica” di Wojtyla ha radici profonde. Il suo pontificato non si comprende se non partendo da essa, complessa nella struttura – fatta di libri, encicliche, lettere apostoliche, discorsi – e dinamica perché calata nella realtà dei popoli, delle nazioni e del governo del mondo.

L’anticomunismo di Giovanni Paolo II non è stato, dunque, soltanto dottrinario, ma pratico ed oltre che rivolto alla liberazione dell’universo concentrazionario, ha avuto lo scopo di difendere la Chiesa da uno dei suoi nemici più implacabili, essendo l’altro il materialismo pratico proprio delle società opulente.

Con la sua prima enciclica, la Redemptor Hominis, un testo apertamente “cristocentrico”, il Pontefice esaminava la decadenza e ne indicava il superamento nella riscoperta del primato della persona messa in discussione dal dominio totalizzante della tecnica: “Esiste già – scriveva – un reale e percettibile pericolo che mentre progredisce enormemente il dominio dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L’uomo non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù”.

C’era già in questa enciclica la polemica contro il materialismo pratico ed il relativismo etico che Papa Wojtyla avrebbe condotto nel corso del lungo pontificato. Ravvisando in essi i germi della decadenza e del nichilismo, il Papa sosteneva che soltanto il ritorno al diritto naturale e, dunque, alla legge di Dio avrebbe potuto sottrarre l’uomo al destino di diventare un automa, rotella di un ingranaggio infernale nel quale avrebbe smarrito con la sua coscienza anche la sua stessa libertà.

Encicliche come la Laborem exercens, la Sollicitiudo rei socialis e soprattutto come la Centesimus annus – senza dimenticare le altre, naturalmente – sono le “chiavi” che permettono la penetrazione più immediata del pensiero di Giovanni Paolo II sui mali della nostra epoca. In particolare l’ultima delle tre encicliche citate, redatta per celebrare il centenario della Rerum novarum di Leone XIII, si opponeva all’errata concezione della natura della persona scaturita dall’ateismo, “strettamente connesso con il razionalismo illuministico che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico”.

Mentre critica lo statalismo, Papa Wojtyla in questo testo censura anche uno dei modelli affermatisi dopo la seconda guerra mondiale, vale a dire la società del benessere e dei consumi. “Essa – scriveva – tende a sconfiggere il marxismo sul terreno di un puro materialismo, mostrando come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali”. Se è vero che questo modello sociale mostra il fallimento del comunismo, aggiungeva il Papa, è altrettanto vero che negando autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura ed alla religione, converge di fatto con il marxismo “nel ridurre totalmente l’uomo alla sfera dell’economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Insomma, sottolineava Giovanni Paolo II, che affidava al “partecipazionismo” la soluzione dei conflitti sociali ed il superamento della “umiliazione” dei valori della persona, la dottrina sociale della Chiesa “riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. Inoltre essa “riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, ‘lavorare in proprio’ esercitando la loro intelligenza e libertà”.

Con queste espressioni forti e suggestive il Papa rinvigoriva la sua polemica contro il materialismo pratico lanciata nelle precedenti encicliche fino a chiamare sul banco degli imputati i sistemi politici che generano disfunzioni sociali ed allontanano dalla sfera pubblica i cittadini. La Chiesa, osservava, “non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali, per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato”, ed auspicava anche in campo politico “la creazione di strutture di partecipazione e corresponsabilità” in grado di avvicinare il popolo allo Stato.

Un messaggio chiaro contenente il rifiuto sempre opposto di assecondare lo “scontro di civiltà” cui opponeva la ricerca delle condizioni per costruire ponti tra religioni e culture; è questo, forse, il lasciato più significativo del grande Pontefice che ha interpretato meglio di qualunque filosofo, politico o morfologo della storia le distorsioni della modernità ed ha indicato la via sulla quale procedere per superare l’orizzonte nichilista, come testimonia, con un’efficacia straordinaria, il suo testamento spirituale, Memoria e identità, pubblicato due mesi prima della morte, nel quale si applica alla ridefinizione di concetti-chiave della politica infirmati da ideologie e pratiche di potere che li hanno utilizzati distorcendoli: Patria, Nazione, Stato, Europa, Democrazia.

Tra l’altro vi si legge – e non può che destare stupore per la indiscutibile attualità della tesi – che “la patria è una grande realtà. Si può dire che è la realtà al cui servizio si sono sviluppate e si sviluppano nel tempo le strutture sociali…”. Come la famiglia, osservava, anche la nazione e la patria restano realtà non sostituibili: “La dottrina sociale cattolica parla in questo caso di società ‘naturali?, per indicare un particolare legame, sia della famiglia che della nazione, con la natura dell’uomo, la quale ha una sua dimensione sociale”. E ancora: “L’identità culturale e storica delle società è salvaguardata ed alimentata da quanto è racchiuso nel concetto di nazione”.

Oggi sono altri gli accenti che vengono dal Soglio di Pietro. E Karol Wojtyla, cioé San Giovanni Paolo II, ci manca immensamente, come quel suo contagioso sorriso del 16 ottobre di quarant’anni fa che illuminò il mondo e diede una speranza alla Cristianità.

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