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L’affare Khashoggi e l’uomo forte al comando. Perché Erdogan si è indebolito

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Di certo potrebbe persino non esserci nemmeno il fatto che sia morto. Ma solo perché hanno fatto in modo che non si ritrovasse neanche quel che restava delle sue mortali spoglie, che, a costo di essere truci, bisogna scriverlo, consistevano in 10, massimo 20 tocchi in cui è stato sezionato il corpo dopo l’assassinio.

Da ieri abbiamo due certezze alternative: sul caso Khashoggi difficilmente si saprà mai la verità e gli unici a non aver guadagnato nulla dalla sua scomparsa sono la sua famiglia e i Fratelli Musulmani, a cui l’uomo era legato a doppio filo, come era legato a doppio filo all’establishment saudita precedente quello di Mohammed bin Salman, del resto. Per il resto, in questa brutta vicenda, risolta con metodi che vanno ben oltre la diplomazia tutte le tre parti chiamate in causa hanno cercato di portare a casa un risultato.

Ormai, pensare male circa quello che può essere successo, è quasi un dovere e certo non è fuori luogo. Khaoshoggi viene visto per l’ultima volta vivo e intero alle 13.30 circa del 2 ottobre scorso, quando le telecamere del consolato generale saudita lo inquadrano mentre entra nella sede diplomatica. Poi il nulla. Tempo poche ore, i servizi segreti turchi o chi per loro iniziano a imbeccare i giornalisti di mezzo mondo, raccontando, off the records, ma con viva preghiera di pubblicazione, tutti i particolari non solo l’omicidio, ma anche l’esecuzione postuma del cadavere. Iniziano anche a circolare i primi video sulla task force arrivata da Riad la notte precedente la scomparsa del giornalista. Il New York Times e il Washington Post iniziano anche a dire di essere in possesso di video con gli ultimi istanti di vita e l’orribile morte del reporter.

Viene lecito pensare che la Turchia sapesse quello che stava per accadere e non sia riuscita, o non abbia potuto, impedirlo. Khashoggi conosceva il Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, da diversi anni, proprio perché, come lui, è legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani, che invece in Arabia Saudita vengono considerati terroristi. Khashoggi, che un anno fa era scappato negli Usa perché temeva per la sua incolumità, il mese scorso aveva parlato con un alto dirigente dell’Akp e gli aveva detto di non sentirsi completamente sicuro in Turchia, anche se è qui che aveva deciso di vivere per amore. E sempre per amore, il 2 ottobre scorso è entrato in un posto che si preparava a farlo sparire e da cui avrebbe dovuto stare lontano. Ma poche settimane dopo avrebbe dovuto sposarsi con la sua fidanzata turca.

La Turchia, non potendo tirarsi contro l’Arabia Saudita, con cui i rapporti sono già tesi per il sostegno ai Fratelli Musulmani e all’Iran, ha fatto in modo di non doversi girare dall’altra parte gratis e se da un lato i suoi servizi segreti, anziché agire prima, hanno diffuso tutte le informazioni possibili dopo, ha trovato il modo di guadagnarci in maniera più concreta. Insieme con le due altre parti chiamate in causa, ossia l’Arabia Saudita e gli Usa.

Il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha tolto di mezzo un oppositore influente, che, fra le altre cose, come consulente del regime precedente, conosceva anche molti, forse fin troppi, segreti. L’Arabia saudita ha dimostrato di poter fare quello che voleva, senza dover temere ripercussioni di alcun tipo, né con Ankara, troppo dipendente dagli investimenti di Riad nel real estate, né con gli Stati Uniti. La conferma di questo, è arrivata tre giorni fa, quando il presidente Usa, Donald Trump, ha sottolineato che le commesse con Riad non erano a rischio, nonostante le sollecitazioni del Senato a mettere il regno saudita sotto sanzioni.

A questo punto, però, sia Washington sia Ankara hanno voluto ottenere qualcosa da una situazione destinata comunque a pesare sulla popolarità dei rispettivi leader, anche se in modo diverso. Trump, che va incontro alle elezioni di mid term, si è assicurato che la Turchia collaborerà con l’Arabia Saudita nelle indagini, che difficilmente faranno davvero luce sulla realtà e, soprattutto, ha ottenuto il rilascio del pastore Andrew Brunson, in carcere con accusa di terrorismo da due anni e che era stato una delle principali cause delle tensioni con Ankara che avevano portato alla crisi della lira turca. Il religioso è volato a casa ieri subito dopo la sentenza e il tweet trionfale del Presidente Trump, in cui sostanzialmente si prendeva tutto il merito.

Il presidente Erdogan, legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani, ha detto che aspetterà le conclusioni dell’inchiesta, mitigando progressivamente i toni circa le reazioni alla scomparsa del giornalista. Il suo sostanziale silenzio, e la restituzione di Brunson, gli valgono l’annullamento delle sanzioni americane sull’acciaio e l’alluminio e rapporti più distesi con Washington, almeno fino alla prossima occasione. Una boccata di ossigeno per il presidente turco, che così conta di porre un freno alla crisi della valuta che sta avendo ripercussioni pesanti sull’economia nazionale e potersi preparare per il voto amministrativo del prossimo marzo, che però ha il sapore di un voto politico.

Rimane solo da chiedersi cosa ne pensino dalle parti de Il Cairo o di Gaza, dove Erdogan, che deve molto a entrambi, è sempre stato visto come un punto di riferimento e un alleato fedele.

Ma si sa, nel Medioriente le alleanze cambiano facilmente e anche correnti in contrasto fra di loro, possono allearsi temporaneamente alla bisogna. E l’affare Khashoggi ci insegna che, nell’epoca dell’uomo forte al comando, chi è più forte va avanti sena scrupoli e piega anche tutti gli altri, fino alla fine della catena, dove l’ultimo anelllo stavolta è stato Recep Tayyip Erdogan.


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