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Il mal d’Africa e la responsabilità europea

africa, cianciotta

Forse in pochi lo sanno ma la multinazionale francese Thales, campione nei settori della difesa, spazio, infrastrutture e trasporti, è di nuovo impelagata in un grosso caso di corruzione internazionale. La spada di Damocle, però, sino ad oggi è penzolata solo sulla testa dell’ex Presidente del Sudafrica, Jacob Zuma, dimessosi dalla carica a favore di Cyril Ramaphosa proprio per le pressioni politiche scaturite da una vasta e losca trama d’affari. Ma perché si parla del processo a Zuma e non anche della posizione scomoda di Thales? Il silenzio compiacente dei media francesi sembra quasi voler proteggere il potente gruppo dal biasimo che copre, invece, il politico africano.

La reputazione di Thales sul web, infatti, è a prima vista immacolata. Innovativa, performante, strategica: Thales è una fonte di orgoglio nazionale. Posseduta ancora oggi per un quarto dal governo di Parigi, che detiene il 36% dei diritti di voto nel gruppo, il gigante si fregia di essere il leader mondiale per le apparecchiature tecnologiche al servizio della difesa e dell’aeronautica, anche spaziale. Un asset importante per l’Eliseo, visto che dà lavoro a 65 mila persone e ha un fatturato di 15,8 miliardi di euro. In Africa da 40 anni, Thales opera con le sue filiali in maniera tentacolare, muovendosi fra l’Algeria, il Marocco, l’Egitto, il Kenya, la Nigeria e il Sudafrica, ma si chiama così solo dal 2000, dopo la fusione con Alcatel Space, Dassault Electronique e Thomson-CSF. Basta qualche ricerca più approfondita, lontana dai siti informativi francofoni, per trovare tutta un’altra serie di gesta.

Si va dal contratto di vendita a Taiwan delle fregate Kang Ding, ottenuto nel 1991 grazie al pagamento di 500 mln di dollari in tangenti (su un appalto di 2,5 miliardi) e costato a Thales una multa storica di 630 mln di euro, alla fornitura al governo malese dei sottomarini Scorpion, finalizzatasi nel 2002 grazie al versamento di 132 mln di dollari in mazzette. E ancora ci sono i 6,9 mln di dollari per le pratiche fraudolente in Cambogia, che sono valse l’inserimento di Thales nella black list da parte dell’Integrity Department della World Bank nel 2006, e le investigazioni per ulteriori casi di corruzione in Grecia, Brasile e Australia.

Poi c’è il processo bis a Zuma, riapertosi da poco al cospetto della Corte Suprema di Durban con 16 imputazioni verso l’ex Presidente sudafricano, che rivela una spy story in salsa neocolonialista con ogni tipo di ingrediente. Il colosso francese che deve piazzare armi, il politico africano disposto ad accettare forniture meno convenienti in cambio di bustarelle, l’intermediario che facilita i contatti, la controllata locale con denominazione non riconducibile alla holding per gestire i traffici e, dulcis in fundo, la banca di Dubai che dispone la “donazione”.

Una trama complessa – tutta ancora da verificare quanto ai particolari – alla cui base starebbe l’interesse francese nel lontano 1999 a far parte di un affare di fornitura di armi di 4 mld di dollari. Tutto ciò, evidentemente, in barba alle leggi della concorrenza e del libero mercato. Per ottenere l’influenza degli ambienti politici, la controllata locale Thint si sarebbe avvalsa della consulenza fittizia di Schabir Shaik, uomo di Zuma condannato a 15 anni di reclusione per la medesima condotta criminosa. Al centro dell’inchiesta dei giudici, oggi, sono i 783 pagamenti sospetti nei confronti dell’allora vicepresidente Zuma, con tanto di rendita annuale, viaggi all’estero, doni, vestiti costosi e altre equivoche regalie.

In Africa, ci si giustifica, funziona sempre così: chiunque voglia vincere un appalto sa che deve pagare le “facilitation fees” altrimenti dette, usando la lingua di Voltaire, “pots-de-vin”. Il gioco per le grandi multinazionali è facile: si crea una società locale con un nome di fantasia che stipulerà le consulenze fittizie. In tal modo si dispone di un giustificativo formale da usare come escamotage per costituire fondi offshore. Ci si muove, insomma, sapendo che una certa significativa percentuale della fornitura dovrà essere versata a un terzo.

In certi Paesi, le tangenti restano un fattore strutturale negli affari fra soggetti privati e pubblici. Una piaga che sottrae risorse preziose allo sviluppo economico. Tuttavia, appare ancora più grave se a tale pratica esecrabile si conformino persino quelle imprese possedute da governi che fanno della lotta alla corruzione e del rispetto delle regole nella comunità internazionale un baluardo. Il maquillage comunicativo nel caso francese appare evidente. L’orgoglio dell’esagono è talmente forte da scongiurare polveroni mediatici.

Forse vale la pena, dunque, di rammentare le pratiche scorrette della multinazionale che ambisce ad armare il continente nero, su cui il governo francese chiude un occhio. E sottolineare l’ipocrisia di chi ambisce a presentarsi come paladino dei diritti umani chiudendo Calais mentre sorvola elegantemente sugli illeciti delle proprie imprese in quegli stessi paesi in cui si vorrebbero costruire, per dirla alla Macron, delle “solutions gagnant-gagnant”.

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