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Mattis spiega perché l’effetto del caso Khashoggi è ancora potente

Nella mente di alcuni dei leader europei che oggi e domani prendono parte all’Eu-Arab World Summit di Atene – conferenza di dialogo e contatti tra mondo arabo e Unione Europea – quando incontreranno la delegazione dell’Arabia Saudita, guidata dal presidente del Consiglio delle Camere Saudite (CSC), Sami Al-Obaidyan, ci sarà probabilmente il caso dell’uccisione di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del Washington Post ucciso nel consolato del suo paese a Istanbul da una squadraccia dei servizi segreti inviata da Riad.

Francia, Regno Unito e Germania hanno diffuso un paio di settimane fa un documento di denuncia chiedendo al regno chiarezza sulla vicenda; il G7 e l’Unione europea hanno sottoscritto, il 10 e il 20 ottobre scorso, due appelli per la libertà di stampa e sul profondo turbamento prodotto dalla scomparsa del giornalista – posizioni inevitabili. L’Italia ha tenuto una linea più prudente, inserendosi nel contesto multilaterale (perché, spiegano da ambienti del governo, “riteniamo che lo strumento più efficace per far pervenire messaggi di preoccupazione alle Autorità saudite e richieste di condurre indagini approfondite e tempestive sia l’azione sul canale multilaterale”).

Riad ha cambiato versione diverse volte sull’accaduto – prima diceva che Khashoggi era uscito dal consolato e che niente di quello che le autorità turche diffondevano tramite i media era vero; poi è stata ammessa la morte del giornalista e successivamente è stata presa la linea della squadra uscita fuori controllo durante un’operazione che doveva essere un interrogatorio; via via l’operazione ha preso le sfumature di una missione per catturarlo e poi riportarlo a casa; successivamente i sauditi hanno ammesso che si è trattato di una killing mission, azione che come scopo aveva l’eliminazione di Khashoggi. Di cui, a oggi, non è stato ancora ritrovato il corpo.

Domenica sulla vicenda è intervenuto con la giusta dose di diplomazia e grinta il segretario alla Difesa americano, James Mattis, che dal palco di una conferenza sulla sicurezza internazionale nella capitale del Bahrain, Manama, pur senza menzionare mai l’Arabia Saudita come responsabile, ha detto: “Il fallimento di qualsiasi nazione di aderire alle norme internazionali e allo stato di diritto mina la stabilità regionale nel momento in cui è più necessario”.

Poco dopo Mattis, nella sala del “Manama Dialogue 2018” organizzato dal think tank inglese International Institute for Strategic Studies, è toccato al ministro degli esteri dell’Arabia Saudita, Adel al-Jubeir, tenere il suo discorso: stiamo lavorando nell’inchiesta, ci sono i colpevoli (15 uomini dei servizi segreti, la squadraccia, più altri tre rimasti nel regno, qualche testa saltata tra le alte sfere, compresa quella del vice direttore dell’intelligence, Ahmed al-Assiri, ndr). Poi il ministro saudita ha detto che c’è “isteria mediatica” attorno all’omicidio.

La faccenda è enorme, perché ha scoperchiato situazione precedenti: i rapporti tra Washington, Occidente e Riad, la Turchia (che ha giocato sulla conoscenza dei fatti, evidentemente attraverso intercettazioni, per alzare la posta e ottenere spinte sui propri interessi), le delicate sensibilità del Golfo (per esempio la crisi col Qatar, alleato turco).

Mattis, parlando dal Bahrain, sede della Quinta Flotta della Marina, ha inquadrato rapidamente il contesto quando si riferiva al “momento” in cui “la stabilità regionale” è più necessaria: gli alleati sono preoccupati riguardo a una riduzione del ruolo di sicurezza americano in Medio Oriente, a cui potrebbe seguire come conseguenza uno spostamento rapido della Russia per riempire il vuoto.

Gli Stati Uniti non hanno una portaerei nel Golfo Persico da marzo, e il Pentagono sta tirando fuori dalla Giordania, dal Kuwait e dal Bahrain sistemi di difesa missilistica Patriot come parte di un riallineamento strategico della potenza di fuoco lontano dal Medio Oriente e verso Russia e Cina. Questo non piace alla monarchia saudita e ai fedeli alleati emiratini che puntano sulla sponda americana per contrastare l’espansione iraniana – con Teheran alleato russo sulla Siria.

Ci siamo, ha comunque rassicurato Mattis, ma quel che ha detto sembra anche un messaggio diretto a Riad, che suona più o meno così: non potete lamentarvi se allentiamo con voi, se poi fate certe cose in giro per il mondo e ci mettete in difficoltà di immagine. Il caso Khashoggi è interessante anche in quest’ottica, perché è una questione imbarazzante per gli americani, che sebbene con l’amministrazione Trump abbiano ricucito i rapporti con i sauditi, negli ultimi mesi si sono piuttosto innervositi con Riad per varie questioni, tra cui il poco impegno messo dall’Opec nell’abbassare il prezzo del petrolio.

Mentre gli americani ritiravano la loro delegazione ufficiale dalla Davos del Deserto, la conferenza economica saudita organizzata dall’erede al trono Mohammed bin Salman – su cui pende un’accusa non ufficiale di essere il mandante dell’omicidio del giornalista, uno dei più importanti e ascoltati critici del suo nuovo corso del potere – i russi sono arrivati in forze a Riad. Hanno stretto mani e mostrato presenza (poi il discorso economico è relativo: Mosca non ha un’economia in grado di offrire sponde ai sauditi, ma può farlo dal punto di vista politico e diplomatico; e tra l’altro, col formato Opec+ da mesi sta lavorando su produzioni e prezzi del petrolio insieme al regno).

Tuttavia, nel suo intervento – sebbene inserito in quello scenario – il capo del Pentagono ha pressato molto sulla necessità di contenere l’Iran. Ed è il nocciolo della questione con cui ha confermato l’allineamento Usa-Ksa, ai sauditi che col caso Kahashoggi hanno temuto un qualche deterioramento delle relazioni con Washington – anche se la Casa Bianca ha speso parole dure solo contro gli esecutori, e ha sempre preso posizioni morbide e garantiste sul coinvolgimento di eventuali mandanti a corte. Mattis ha fornito “una riaffermazione dell’impegno americano nei confronti della regione, dei suoi partner e, naturalmente, di un’ostilità generale verso l’Iran”, ha detto al New York Times Robert Malley, il presidente dell’International Crisis Group ed ex coordinatore degli uffici della Casa Bianca per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo durante l’amministrazione Obama.

Ma Washington intende dettare regole. Per esempio, Mattis ha anche chiesto all’Arabia Saudita – e agli Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto – di riparare la spaccatura che ha prodotto la crisi col Qatar (accusato formalmente da quegli altri paesi di finanziare il terrorismo; informalmente isolato per via di una relazione troppo disinvolta con l’Iran). Qualche giorno fa, quando bin Salman ha parlato alla sua Davos, è sembrato (per la prima volta dopo oltre un anno di stallo diplomatico) anche lui voler alleggerire la pressione su Doha. E forse c’è da pensare a un coordinamento: Turchia e Qatar sono due paesi in questo momento molto vicini, allineati anche per via delle relazioni strette che hanno con il mondo dei Fratelli musulmani, a cui anche Khashoggi apparteneva. Possibile che il prezzo che Ankara chieda di pagare a Riad per aver ucciso il dissidente saudita sul suolo turco, sia anche l’allentamento sul Qatar.

(Twitter: @IISS_org, James Mattis durante il suo intervento in Bahrein)

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