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Pd unito, ma su cosa? Il caso di Michele Emiliano

Non sono passate neanche 24 ore dalla manifestazione organizzata dal Partito democratico in Piazza del Popolo per raccogliere le forze dell’opposizione del centrosinistra al governo gialloverde, una manifestazione che ha visto i militanti chiedere unità, che già su un’altra piazza, quella virtuale di Twitter, si consuma l’ennesimo scontro interno tra Carlo Calenda e Michele Emiliano.

“Chi avrebbe il coraggio di cacciarmi nel Pd”, ha scritto questa mattina il presidente della Regione Puglia in risposta al messaggio di un’utente che ne sottolineava l’incoerenza nella linea di pensiero. Emiliano, infatti, negli scorsi giorni aveva spiegato il perché della sua assenza in Piazza del Popolo: “Renzi non è d’accordo sull’ipotesi di segreteria Zingaretti perché parla con l’M5S che reputa il diavolo – aveva detto intervenendo su Rainews -, e invece è lui che ha determinato questo governo; Non vado alla manifestazione del PD perché questo governo è legittimo”. Una posizione, quella di Emiliano, che si è sempre scontrata con quella dell’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che infatti ha rispsto al suo tweet odierno con toni netti e decisi: “Michele fossi il Segretario è la prima cosa che farei. Hai passato gli ultimi anni ad accusare i nostri governi di qualsiasi nefandezza con insulti vergognosi. Fai politica per un altro partito. È una questione di rispetto per se stessi. Se non lo hai tu lo deve avere il PD”. Insomma, la tanto ricercata unità si scontra, ancora una volta, con la realtà di un dibattito interno su chi ha aperto in passato – e ancora apre – al Movimento 5 Stelle, e chi invece rivendica una posizione di chiusura nei confronti del movimento guidato da Luigi Di Maio.

“Ho detto e scritto, oramai molte, ma mai troppe, volte, che il Pd sconta il suo peccato originale – ha scritto su Formiche.net Gianfranco Pasquino -. Quella tanto vantata contaminazione del meglio delle culture progressiste del paese non è mai avvenuta. In sostanza, c’è stata unicamente la sommatoria di ceti dirigenti che si vantano di essere eredi di quelle culture politiche, peraltro ormai spossate da anni di riflessioni mancate. Nel frattempo, non c’è stata nessuna elaborazione culturale nel Partito democratico, ma, non dobbiamo blandire gli italiani quanto, piuttosto, dire loro parole di verità, nel paese si è largamente diffusa una ripulsa nei confronti della cultura, della competenza, della scienza”. A mancare, spiega il professore di Scienza Politica all’Università di Bologna, è un dialogo sull’identità di un partito in cui le posizioni interne, seppure differenti, possano portare a una visione comune di Paese e futuro: “Tutto questo è difficile – ha concluso Pasquino -, anche per le carenze flagranti del ceto dirigente del Pd tanto più timoroso di coloro che posseggano elementi culturali di alto livello quanto più consapevole della propria inadeguatezza e quindi della probabilità di dovere cedere il passo. Difficile, ma non impossibile se, da subito, cominciasse il confronto e anche il conflitto (il sale della democrazia) su opzioni alternative, non solo sul potere, ma soprattutto sul progetto di rilancio/rinnovamento/ricostruzione”. Un dialogo che, pare, ancora non è iniziato.

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