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Ombre cinesi. Gli allarmi delle intelligence occidentali al Copasir

Nelle prossime settimane il ministro dello Sviluppo economico e vice premier, Luigi Di Maio, e la collega della Difesa, Elisabetta Trenta, saranno sentiti dal Copasir (ilComitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) su varie questioni, tra cui la posizione preferenziale acquisita dalla ditta delle telecomunicazioni cinese Huawei nel settore 5G, la futura tecnologia per le comunicazioni mobile – che è anche una delle ragioni alla base dello scontro titanico globale tra Stati Uniti e Cina.

Il 28 settembre, il vice premier Di Maio aveva partecipato insieme ad altri esponenti del Movimento Cinque Stelle (tra cui la sindaco di Roma, Virginia Raggi) al “Huawei 5G Summit” organizzato nella Nuova Aula dei Gruppi alla Camera dei Deputati, che è stato considerato come “la rampa di lancio per fare dell’Italia il pivot europeo della rivoluzione (cinese) del 5G” (cit. Francesco Bechis su queste colonne).

L’audizione di Di Maio non è ancora stata calendarizzata: è prevista tra la seconda metà di ottobre e novembre, mentre la ministro Trenta sarà sentita mercoledì, e le domande su Huawei e 5G saranno poste nell’ambito di un’audizione già programmata. La Difesa non ha il ruolo centrale nell’apertura delle porte italiane all’azienda cinese (per una gara che è stimata intorno ai cinque miliardi) che ha il Mise, ma piazzare un player cinese in un ruolo dominante sulle infrastrutture di rete è argomento che può rientrare nell’ambito della sicurezza nazionale.

D’altronde, erano stati i colleghi di Trenta del mondo anglosassone ad alzare per primi le attenzioni su Huwaei. A maggio, per una direttiva firmata dal segretario alla Difesa americano, James Mattis, il Pentagono aveva deciso di interrompere la vendita di telefoni prodotti da Huawei e Zte, le due principali società di telefonia cinesi, nei negozi presenti nelle sue basi in tutto il mondo. La decisione era stata seguita prima dall’Australia, sposata dal Regno Unito e infine dall’India, che aveva assunto posizioni simili a quelle americane.

Il punto, secondo le valutazioni delle intelligence statunitensi – che hanno convinto dipartimenti e congressisti a prendere sulla questione una postura praticamente univoca – è che i cinesi potrebbero aver inserito backdoor (fisiche o software) nei loro prodotti, in modo da renderli controllabili dalle agenzie di spionaggio di Pechino. Il tema è enorme, perché è un altro dei pilastri su cui la Washington trumpiana e non basa il confronto acido con la Cina.

Permettere a una società vicina allo stato cinese di installare gran parte di una rete che controllerà auto, pacemaker, reti energetiche e altre reti critiche per i decenni a venire è preoccupante. “Non si tratta di scarpe”, ha detto tempo fa a Politico Philippe Le Corre, ex funzionario del governo francese ora all’Università di Harvard: “Si tratta di dare a una società straniera un potere maggiore sui tuoi dati”. Da mesi, anche in Europa si teme – in particolare tra le agenzie di intelligence, allarmate dagli acquisti cinesi di società strategiche – che i prodotti dell’azienda possano essere utilizzati dal governo cinese per intelligence.

Per gli americani l’economia cinese è spinta anche da attività clandestine come lo spionaggio e il furto di proprietà intellettuale, che i sistemi Huawei potrebbero favorire: “Le maggioranze di democratici e repubblicani al Congresso sanno che la Cina ha condotto una campagna a lungo termine dedicata a rubare segreti, tecniche e know-how americani” aveva dichiarato il rappresentante democratico, Ruben Gallego, autore dell’emendamento con cui il ban contro Huawei (e Zte) è stato definitivamente inserito nella legge di stanziamento per la difesa statunitense firmata dal presidente Donald Trump a luglio (impedire al Pentagono di acquistare beni e servizi dalle due ditte cinesi, diceva Gallego, è stato “un piccolo passo in una lotta più ampia per costruire una strategia globale in grado di sconfiggere e scoraggiare gli attacchi cinesi alla nostra sicurezza nazionale ed economica”).

L’Australia il 23 agosto ha preso una via simile, e la Huawei è stata esclusa dalla partecipazione in progetti 5G: per il governo australiano le aziende che potevano seguire direttive extragiudiziali da parte di governi stranieri rappresentano un rischio da evitare all’interno del tessuto nevralgico delle telecomunicazioni. A luglio, il comitato per la sicurezza del Regno Unito (noto come Cobar) aveva affermato di aver soltanto margini limitati di certezza sul fatto che i sistemi Huawei non rappresentassero una minaccia per la sicurezza nazionale, e il National Cyber ​​Security Center inglese aveva dichiarato meno diplomaticamente che i prodotti dell’azienda rappresentavano un rischio che apriva a possibilità di penetrazione cinese in apparati sensibili. A settembre, poi, era stata l’India a decidere di togliere i vendor cinesi dalla lista dei partner approvati per i test d’uso del 5G (lista di cui invece fanno parte Cisco, Samsung, Ericsson, Nokia)

Huawei è il più grande produttore al mondo di apparecchiature per telecomunicazioni. Una fonte che lavora nell’ambito delle tecnologie della fibra in Tim, ci fa notare in forma anonima che la penetrazione nel sistema italiano della ditta cinese è già piuttosto spinta. Huawei fornisce gli apparati centrali, ossia gli hardware fisici, ma anche i ponti radio per le comunicazioni mobile, e normalmente ai clienti vengono montati router di fabbricazione Huawei – e, specifica, anche nei casi di aziende che hanno collegamenti fibra dedicati.

“Chi ci garantisce – ci dice – che in quei sistemi non ci sia qualcosa che permette a un’agenzia del governo cinese di scaricare, ogni giorno tutti dati, per poi controllarli e gestirli a proprio piacimento”: “Se volessero potrebbero farlo senza problemi e praticamente senza che noi ce ne accorgiamo”. Di più: perché molte delle operazioni di cablaggio della fibra vengono appaltate a società che lavorano in partnership con Huawei. A questo punto, per tener fuori Huawei dal sistema 5G, ci dice la nostra fonte, sarebbe necessario partire dalla “bonifica delle centrali”, perché altrimenti anche se l’antenna di ripetizione del segnale fosse non cinese, i dati arriverebbero comunque in apparecchiature Huawei.



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