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Perché Trump ha minacciato i sauditi? (Messaggio a Roma)

Southaven, Mississippi, giovedì 3 ottobre: sul palco davanti a una platea infuocata sale Donald Trump. Sotto i suoi fan vogliono sangue perché quello che piace del presidente sono le bombe distruptive. E lui li accontenta: “Io adoro Re Salman (il sovrano saudita, ndr), ma gliel’ho detto chiaramente: ehi, senza la nostra protezione non resteresti sul trono per più di due settimane, dunque visto che ti stiamo proteggendo ci devi pagare”.

Non è una novità assoluta, Trump ha già attaccato gli alleati europei, il Giappone e la Corea del Sud, utilizzando piani retorici analoghi: vi proteggiamo come Nato, dalla Cina e dalla Corea del Nord, dunque voi dovete “pagare”, quanto meno spendere di più in difesa e spendere in armamenti americani. La faccenda però non è passata inosservata a Teheran, dove il ministro degli Esteri, Javad Zarif, uno di quelli che più ha lavorato sul Nuke Deal insieme agli Stati Uniti obamiani, ha scritto in un tweet che Trump “umilia continuamente i sauditi”: non possiamo pensare di esternalizzare la sicurezza regionale, dice Zarif, ed è per questo che “l’Iran tende nuovamente la mano ai nostri vicini”, lavoriamo insieme è il messaggio di fondo (altrettanto distruptive, anche se zeppo di propaganda).

In effetti l’attacco a Riad è particolare, tanto che s’è portato dietro la replica pubblica, in un’intervista alla Bloomberg, dell’erede al trono saudita Mohammed bin Salman: “In realtà noi non dobbiamo pagare niente in cambio della nostra sicurezza. Tutte le armi che riceviamo dagli Stati Uniti sono state pagate, non ci sono state inviate gratuitamente. Dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti l’Arabia Saudita ha sempre pagato tutti gli acquisti di armi”.

L’amministrazione Trump ha ricostruito il rapporto con i sauditi che i predecessori del team Obama avevano un po’ logorato – perché il regno si aspettava un coinvolgimento profondo negli affari mediorientali, a cominciare dalla Siria, e soprattutto non voleva assolutamente che gli americani lavorassero per arrivare all’accordo sul congelamento del nucleare iraniano (il Nuke Deal del 2015), che è invece diventa la principale legacy obamiana in politica estera.

Ma adesso il governo americano è il più aggressivo di sempre contro l’Iran – che è il genere di coinvolgimento che i sauditi vogliono – ed è pure più convinto dei predecessori sulla Siria (Washington ha un piano: costringere Bashar el Assad ad accettare modifiche costituzionali e maggiori aperture del sistema politico, e quando ne parla apertamente sembra di sentire i rivoluzionari del 2011), e soprattutto Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti dall’accordo multilaterale sull’Atomica di Teheran e ha riavviato contro gli ayatollah nemici sauditi un insieme di posture rigide e sanzioni aggressive.

Riad e Washington non sono così vicine da anni, con relazioni economiche e piani strategici incrociati e contatti personali consistenti: la prima visita all’estero di Trump fu in Arabia Saudita, dove suo genero, Jared Kushner, ha costruito relazioni personali con l’erede al trono Mohammed bin Salman (MbS) grazie ad amicizie in comune negli Emirati Arabi e nelle aziende hi-tech statunitense. Gli americani sono anche la principale sponda internazionale per la campagna militare guidata da sauditi ed emiratini in Yemen, finita in mezzo alle critiche dell’opinione pubblica mondiale per via della vittime civili: il segretario di Stato, Mike Pompeo, lo scorso mese ha testimoniato davanti al Congresso che gli alleati stanno lavorando bene per ridurre i danni collaterali degli attacchi.

I sauditi ripagano l’appoggio, investono negli States (dove l’economia corre) e comprano prodotti americani (su tutti le armi: c’è un deal da dozzine di miliardi di dollari stretto proprio da Trump in persona). E dunque, cosa porta Trump a certe affermazioni?

(Da notare, prima di andare avanti: il contesto conta, in certi rally elettorali come quello del Mississippi il presidente domina il palco e per farlo spara bordate che sa che piacciono ai suoi fan, per i quali le linee strategiche statunitensi vengo molto dopo l’America First; inoltre, molto spesso s’è scoperto che dietro a certe dichiarazioni c’è una comprensione solo parziale e superficiale, magari attraverso qualche commento sentito su Fox News, della situazione da parte di Trump, e all’interno della Casa Bianca c’è una corsa continua a temperare toni e parole e a evitare dichiarazioni ).

Però qualcosa potrebbe esserci, magari una questione più momentanea, che non modificherà allineamenti strategici profondi. È possibile infatti che Riad paghi in questo momento un atteggiamento troppo libero e disinvolto, che Trump non gradisce visto che nel suo modo di vedere le cose non si è semplicemente alleati o partner, ma c’è proprio una questione di fedeltà da dovergli dimostrare. Comportamento che l’americano vuole riallineare.

Per esempio, i sauditi stanno lavorando molto con la Cina e con la Russia, che l’amministrazione Trump considera – per dottrina ufficiale – potenze rivali con cui competere. Ma Riad ha bisogno di molte sponde, perché il piano di differenziazione futura studiato da MbS riguarda tutto il settore economico-finanziario, e dunque deve muoversi nel mondo a 360gradi visto i volumi di cui si parla. Inoltre, i sauditi con i russi stanno gestendo il prezzo del petrolio, perché nel breve termine entrambi hanno interesse a tenerlo alto: in linea di massima Trump potrebbe non essere d’accordissimo se si proietta verso le prossime settimane, perché probabilmente tenere più bassi i costi alla pompa può servire per le Midterms, e per questo avrebbe gradito posticipare l’azione al rialzo.

Ma – ci spiega in forma anonima un operatore del settore della finanza globale – “quando oil&gas stanno con prezzi alti, Trump sa bene che questo piace ai frackers“, ossia a coloro che negli Stati Uniti estraggono dagli shale tramite il meccanismo chiamato fracking. Dunque sul lungo termine Washington non ha problemi.

Ancora: il 3 ottobre, è stato annunciato ufficialmente l’avvio del piano di sviluppo di una piastra immobiliare che certamente non piace a Trump. Si tratta della riqualificazione spinta nell’area dove si trovava l’aeroporto Tushïno, a nord-ovest di Mosca, che sarà finanziato da una joint venture guidata dal Fondo sovrano russo (Rdif), con il coinvolgimento del Fondo di investimento Russia-Cina, del Fondo di investimento pubblico saudita (Pif) e del Mubadala emiratino (quote minori andranno in mano ad altri fondi sovrani mediorientali).

Il progetto prevede tra le altre cose la creazione di un centro tecnologico multifunzionale tra i più grandi e avanzati del mondo, un cluster dell’innovazione destinato a essere il riferimento del settore in Russia. Kirill Dmitriev, Ceo di Rdif, ha commentato la nota diffusa dal sito dell’istituzione finanziaria che dirige dicendo che “il tecnoparco multifunzionale avanzato contribuirà in modo significativo alla svolta tecnologica della Russia” – e questo è esattamente l’opposto di quello che piace a Trump, che invece vorrebbe che russi e cinesi, e in fondo tutti gli altri paesi, restassero indietro nel campo dell’innovazione rispetto agli Stati Uniti.

Secondo Dmitriev, inoltre, la riqualificazione del Tushïno rientra anche nei programmi della “componente digitale dell’iniziativa One Belt One Road”, ossia il grande piano geopolitico-commerciale cinese per collegare l’Eurasia. Invece il Pif sta cercando di diventare il più influente fondo pubblico al mondo, e lo sta facendo – con l’ottica di guidare la trasformazione economica saudita, la Vision 2030 di MbS – inserendosi soprattutto nei progetti, di vario genere, che coinvolgono le nuove tecnologie.

Cina e Russia, con Arabia Saudita e Emirati, a Tushïno come altrove, è un allineamento pessimo per Trump, perché vede alleati strategici girare su altre orbite, e per questo alza i toni, li richiama, dato che lui ha il desiderio del rapporto esclusivo e fedele, o quanto meno il più fairy possibile.

Per certi versi da Southaven è arrivato un messaggio anche a Roma, che sta costruendo una relazione con la Cina che l’altro ieri Bloomberg ha definito da pivot-europeo, mentre batte sui rapporti speciali che il governo Conte ha con Trump, ma intende ridurre le spese per la difesa come la Casa Bianca odia. I sauditi però hanno pozzi di soldi è un ruolo centrale nella più turbolenta delle regioni, dove l’altro attore è un paese che Trump considera nemico: nel lungo termine ci sono i presupposti per cancellare il momento.

 



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