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Obiettivo raggiunto in Siria. Putin, l’interesse Usa e il caso Khashoggi

La campagna militare russa in Siria ha ampiamente raggiunto i risultati, dice Vladimir Putin da Sochi, intervenendo al meeting annuale del Valdai Club – “una raffinata conferenza di alto livello organizzata dall’élite russa” (cit.). In realtà l’operazione iniziata nel settembre 2015 è ancora in corso, nonostante il presidente russo abbia già più volte annunciato ritiri e vittoria: dall’ingresso in guerra di Mosca, comunque, l’inerzia del conflitto – che dura da sette anni e pesa quasi mezzo milione di morti – ha virato a favore del regime di Bashar el Assad, che la Russia difende sia per interesse strategico (è un alleato in una posizione geopolitica importante, in mezzo al Medio Oriente e affacciato sul Mediterraneo) sia perché ormai è impantanata nella guerra e Putin sa che deve uscirne vincitore. Come fare a uscirne ancora non è chiaro nemmeno al Cremlino.

“[Sapevamo] che vittime russe sarebbero state possibili, ma abbiamo precluso lo scenario peggiore, ossia il completo isolamento di questo territorio, il degrado dello stato e l’infiltrazione di un considerevole numero di militanti in Russia e nei territori dei paesi limitrofi. […] Con le nostre azioni siamo stati in grado di impedire che ciò accadesse. Abbiamo inflitto gravi danni ai terroristi […] alcuni di loro hanno rinunciato a ulteriori attività e deposto le armi “, ha detto. E ancora: “Prima del [nostro intervento], i paesi che si erano impegnati a combattere il terrorismo non hanno ottenuto nulla. Ma abbiamo liberato il 95 per cento del suolo siriano in tre anni”, ha aggiunto.

Si tratta di dichiarazioni di rito, che un po’ spiegano i motivi della campagna (tra cui il prevenire il terrorismo di ritorno, visto che un migliaia di jihadisti russi sono andati a combattere nelle terre del Califfo), e contengono almeno un’affermazione che non è realistica riguardo alle conquiste territoriali. La gran parte della Siria è stato liberata dall’occupazione califfale attraverso l’operazione della Coalizione internazionale guidata dagli americani, che dalla fascia del wannabe-Kurdistan a nord è scesa verso l’area centro-orientale, dove si trovava Raqqa, la capitale dello Stato islamico. I russi hanno invece si sono focalizzati contro le opposizioni al regime, che sono un gruppo eterogeneo di combattenti, all’interno del quale, nel corso degli anni, molte milizie hanno preso la deriva jihadista, ma quasi mai sposato le posizioni del Califfo.

Soprattutto per coincidenza temporale, su entrambi i fronti sono arrivate vittorie decisive negli ultimi dieci mesi: Putin lo sa, ma cavalca l’onda; nulla di nuovo. Però le dichiarazioni di Putin sulla Siria sono interessanti se inquadrate nel contesto: innanzitutto il capo del Cremlino ha parlato dal Valdai, centro di discussione d’eccellenza dove il pensiero putiniano incontra una dimensione più potabile e globale. E poi c’è anche da tenere in considerazione il quadro più ampio.

Per esempio, il 15 ottobre l’inviato del Cremlino per la crisi siriana era in Arabia Saudita, dove ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman. Mosca sta sfruttando il momento per portare avanti il dialogo con Riad, già intenso sul fronte prezzo del petrolio all’interno del sistema OPEC+ (dialogo che non piace troppo agli americani che nel breve tempo vorrebbero il prezzo più basso). I sauditi sono anche la cassa a cui chiedere soldi per la ricostruzione: bin Salman in questo momento è al centro della scena mondiale perché accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato di Istanbul e cerca maquillage pubblici per non buttare all’aria due anni di charme-offensive globale. La Russia è anche alleata della Turchia nel processo di ristrutturazione politica della Siria che ha sede ad Astana, e Putin dal palco del Valdai ha annunciato che il suo paese non ha intenzione di tagliare i ponti con i sauditi; anzi, potrebbe costruirne di nuovi per proprio interesse, aprendo uno spazio di dialogo con Ankara, che in questo momento invece sta sfruttando il caso Kahashoggi per regolare conti in sospeso con Riad.

Nel gioco di ruoli, la Russia si sovrappone agli Stati Uniti, che si trovano in mezzo tra Turchia e Arabia Saudita sul caso del giornalista, e intanto hanno già ottenuto il bonifico su una prima tranche da 100 milioni di dollari sauditi con cui avviare il processo di ricostruzione al nord della Siria, area che i turchi ritengono strategica e che gli americani hanno liberato dall’occupazione califfale grazie al sostegno a terra dei curdi siriani (considerati da Ankara un gruppo terroristico). L’invio dei soldi al dipartimento di Stato è arrivato il giorno in cui il segretario Mike Pompeo è atterrato a Riad per ricevere risposte sulla vicenda Khashoggi.

Gli Stati Uniti hanno aumentato il loro interesse sul futuro della Siria, e che la vicenda horror del giornalista del Washington Post si abbini per coincidenza all’iniezione di fondi per la ricostruzione del paese può essere un segnale (oppure è il karma, ndr). A settembre, il neo-nominato delegato per la crisi dalla Casa Bianca, Jeff Jeffrey, diplomatico con una carriera lunga tre decenni, ex ambasciatore in Turchia (e Iraq), ha detto che Washington sta lavorando in una “strategia con cui isolare Assad”.

È una posizione forte, che contrasta con quelle assunte nell’era Obama, in cui tutto era più edulcorato, e dallo stesso presidente Donald Trump, che ha più volte detto che per lui bisogna uscire e in fretta dal paese. Trump intende tirar fuori i circa duemila uomini delle unità speciali che hanno liberato il territorio siriano dal Califfato, e che ancora sono acquartierati in caserme discrete e non ufficiali: ma già il capo del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Bolton, ha spiegato che gli americani resteranno lì per monitorare dal campo la tanatosi dell’Is e inoltre limitare la diffusione delle milizie assadiste controllate dall’Iran.

Ora Jeffrey dice che la linea americana, e dunque anche la presenza on the ground, riguarda pure Assad: gli americani, secondo il delegato, hanno intenzione di creare i presupposti per forzare il rais siriano a cambiare la costituzione prima delle prossime elezioni, in modo da evitare la farsa al voto che restituisce da decenni il potere alla famiglia Assad, prima padre e adesso figlio, e garantire maggiore apertura politica anche alle opposizioni. È un obiettivo ambizioso, che potrebbe portare anche a un regime change morbido, che prevede la partecipazione di diversi attori esterni. Su tutti la Russia, ma anche la Turchia e l’Arabia Saudita, due realtà che hanno da sempre chiesto qualcosa di simile e che per farlo hanno cavalcato, con diversi genere di sostegno, le opposizioni da cui è partita la rivoluzione armata.

Putin dal Valdai, la Casa Bianca che parla tra le righe, Arabia Saudita e Turchia che hanno un argomento crudo e delicato di contatto: la Siria è ancora una volta un territorio di sperimentazione.

(Foto: Twitter, Kremlin_Ru_E)

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