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L’interesse nazionale dell’Italia non è a Pechino. Parla il prof. Sapelli

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In un clima di grande preoccupazione e di sospetti occidentali nei confronti dell’espansionismo tecnologico della Cina, “aprire le porte a Pechino per ciò riguarda infrastrutture strategiche come le reti 5G – e i dati che vi transiteranno – potrebbe non corrispondere all’interesse nazionale dell’Italia”. A crederlo è lo storico ed economista Giulio Sapelli che in una conversazione con Formiche.net analizza le relazioni economiche e politiche di Roma con la Repubblica Popolare e come queste potrebbero impattare a livello domestico e internazionale.

Professore, nei prossimi giorni il Copasir potrebbe occuparsi della posizione preferenziale acquisita dalla compagnia di telecomunicazioni cinese Huawei nel settore 5G, la futura tecnologia per le comunicazioni mobile, che è anche una delle ragioni alla base dello scontro globale tra Stati Uniti e Cina. Che ne pensa?

Trovo giusto questo interessamento. Mentre altrove i colossi cinesi, ormai monopolisti sul piano delle infrastrutture di rete, vengono estromessi da gare pubbliche per privilegiare un controllo nazionale su questi asset strategici, noi stiamo colpevolmente trascurando un aspetto cruciale per la sicurezza nazionale.

L’Italia sbaglia nel voler intensificare le relazioni commerciali con Pechino?

I rapporti commerciali sono sempre i benvenuti quando portano valore e sono all’insegna della reciprocità, quindi no. Ma qui il tema è un altro. Sarebbe sconsiderato non valutare l’importanza crescente che le reti – e i dati che vi transitano – avranno per la stabilità politica, la proiezione militare, la difesa e la prosperità economica di un Paese. Temi che sono strettamente legati alla protezione del know how e, più in generale, all’intelligence economica. Senza contare lo scenario internazionale nel quale questi aspetti si inseriscono.

Si riferisce agli attriti tra Washington e Pechino?

Anche a quelli. Per capire cosa significa essere nella “morsa” di Pechino basta guardare all’Australia, un Paese vicino prima accolto con grande favore e che oggi è invece la principale ragione del riarmo di Canberra. Ritengo che si stiano sottovalutando le ripercussioni, anche geopolitiche, che un eccessivo avvicinamento a Pechino può comportare per il nostro Paese. Non bisogna essere miopi. Gli Stati Uniti, dei quali siamo stretti alleati nella Nato e non solo, continuano ad esprimere preoccupazione per le ambizioni globali della Cina ed è nostro compito, oltre che nostro interesse diretto, considerarle in modo autonomo ma approfondito, senza lasciare nulla al caso.

Perché negli ultimi anni questo e altri governi guardano in modo così forte a Oriente?

Le ragioni economiche rappresentano sicuramente un elemento importante in questa “infatuazione”, ma non sono le sole, soprattutto quando si tratta di asset delicati e strategici. Alla base c’è una caratteristica del tutto culturale, ovvero una certa vocazione a un “cosmopolitismo”, inteso in senso negativo, che non sempre tutela il nostro interesse nazionale.

In che cosa si sostanzia oggi l’interesse nazionale italiano?

Se l’Occidente e l’Alleanza Atlantica non sono scatole vuote, come io credo, penso che non si debbano sottovalutare gli allarmi esterni dei nostri partner né tanto meno quelli interni, che neppure mancano. Attenzione: non si tratta di servilismo, né di appiattimento su posizioni altrui ma di altro.

Di che cosa si tratta allora?

Semplicemente della capacità di distinguere, nelle relazioni internazionali, ciò che è bene e ciò che è male per il nostro Paese. E quel che servirebbe oggi all’Italia è un protezionismo selettivo dettato innanzitutto dalle moderne esigenze di sicurezza.

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