Nell’omelia con cui Papa Francesco ha posto fine a questo sinodo sui giovani c’è un passaggio di estrema importanza, che va letto: “La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli. Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario. Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco. Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì. E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva”.
Quello di avvicinarsi, non di scansarsi dal prossimo, o tenersi alla larga, è un argomento caro a Bergoglio, che in un’omelia dei tempi di Buenos Aires ne ha parlato con una chiarezza che oggi è estremamente utile andarsi a rileggere: “Quando non ci avviciniamo, quando guardiamo da lontano, le cose non ci fanno soffrire e nemmeno ci inteneriscono. C’è un proverbio che dice ‘occhio non vede cuore non duole’. Ma succede anche il contrario, soprattutto al giorno d’oggi che vediamo tutto, ma per televisione… ‘Cuore che non si avvicina, che non tocca il dolore, cuore che non sente…e pertanto, occhi che guardano ma non vedono”.
Gli occhi del sinodo hanno saputo guardare i giovani d’oggi? Sembrerebbe di sì, visto che il documento esordisce sottolineando che “pur in un contesto di globalizzazione crescente, i Padri sinodali hanno chiesto di mettere in evidenza le molte differenze tra contesti e culture, anche all’interno di uno stesso Paese.” E hanno saputo dire cose importanti sugli abusi, sulla violenza, che sono il primo punto di attualità ecclesiale di questo sinodo, che è stato un po’ snobbato nonostante la gravità dello scandalo degli abusi, visto che nel testo si legge che il sinodo “esprime gratitudine verso coloro che hanno il coraggio di denunciare il male subìto: aiutano la Chiesa a prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione.” Questa capacità di esprimere gratitudine a chi ha denunciato può far sperare che gli impegni a cambiare strada a partire dalla selezione e dalla formazione non siano disattese.
Del molto altro che si dovrebbe dire tre punti non possono essere esclusi. Il primo è quello dei migranti, molti dei quali sono giovani. La riflessione al riguardo parte di qui: “I fenomeni migratori rappresentano a livello mondiale un fenomeno strutturale e non un’emergenza transitoria. Le migrazioni possono avvenire all’interno dello stesso Paese oppure tra Paesi diversi. La preoccupazione della Chiesa riguarda in particolare coloro che fuggono dalla guerra, dalla violenza, dalla persecuzione politica o religiosa, dai disastri naturali dovuti anche ai cambiamenti climatici e dalla povertà estrema: molti di loro sono giovani. In genere sono alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi.Molti Padri sinodali hanno sottolineato che i migranti sono un “paradigma” capace di illuminare il nostro tempo e in particolare la condizione giovanile, e ci ricordano la condizione originaria della fede, ovvero quella di essere “stranieri e pellegrini sulla terra”. Al riguardo in particolare dei giovani si sottolinea poi che “ i giovani che migrano sperimentano la separazione dal proprio contesto di origine e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda anche le comunità di origine, che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti, e le famiglie, in particolare quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli nel Paese di origine. La Chiesa ha un ruolo importante come riferimento per i giovani di queste famiglie spezzate. Ma quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti. Le iniziative di accoglienza che fanno riferimento alla Chiesa hanno un ruolo importante da questo punto di vista, e possono rivitalizzare le comunità capaci di realizzarle”.
Altro passaggio importante è quello relativo agli omosessuali. Se ne parla, finalmente, e se molti hanno notato che rispetto al testo base con cui la discussione è cominciata qui non si parla di Lgbt, meno notato è il fatto che non ripeta che l’omosessualità è un disordine mentale. Forse qui c’è una novità più importante di quella che non c’è con l’assenza dell’acronimo Lgbt. Ma altrettanto importante è il punto del documento finale che finalmente parla dei single: “Il Sinodo ha riflettuto sulla condizione delle persone che vivono da “single”, riconoscendo che con questo termine si possono indicare situazioni di vita molto diverse tra loro. “Tale situazione può dipendere da molte ragioni, volontarie o involontarie, e da fattori culturali, religiosi, sociali. Essa può dunque esprimere una gamma di percorsi molto ampia. La Chiesa riconosce che tale condizione, assunta in una logica di fede e di dono, può divenire una delle molte strade attraverso cui si attua la grazia del battesimo e si cammina verso quella santità a cui tutti siamo chiamati”. Un silenzio che alla finisce… Meriterebbe poi una riflessione approfondita l’approvazione con significativo dissenso del punto relativo alla “forma sinodale della Chiesa”.
Ma è il punto sul discernimento e la coscienza a voler essere presentato per la sua rilevanza davvero straordinaria. Il discernimento è la cifra del pontificato di Jorge Mario Bergoglio insieme alla misericordia. E soffermandosi sul discernimento il documento afferma: “È nella coscienza che si coglie il frutto dell’incontro e della comunione con il Cristo: una trasformazione salvifica e l’accoglienza di una nuova libertà. La tradizione cristiana insiste sulla coscienza come luogo privilegiato di un’intimità speciale con Dio e di incontro con Lui, in cui la Sua voce si fa presente: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (Gaudium et spes, n. 16).” E quindi si aggiunge: “ Inoltre occorre una pratica abituale del bene, verificata nell’esame della coscienza: un esercizio in cui non si tratta solo di identificare i peccati, ma anche di riconoscere l’opera di Dio nella propria esperienza quotidiana, nelle vicende della storia e delle culture in cui si è inseriti”.