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Contro i sovranismi l’Europa riscopra le grandi riforme sociali

Europa

La politica mondiale di questo decennio è stata certamente dominata dalla crisi delle istituzioni europee. Come è stato ampiamente detto,  l’Unione Europea è ad un momento di svolta: per la prima volta si palesano all’orizzonte concrete possibilità che nelle prossime elezioni del maggio prossimo il parlamento vedrà affermarsi una maggioranza anti unione. Ciò è facilmente prevedibile. Già i Paesi dell’Est vedono al Governo maggioranze politiche euroscettiche: in Ungheria, in Polonia, eccetera non soltanto l’influenza orientale è molto più forte che altrove, ma il ritorno alla democrazia, dopo decenni di dittatura comunista, ha posto al centro la grandissima questione della libertà dei popoli, e di uno spazio di autonomia inalienabile.

L’aggiunta a questo fatto di una crescita dei cosiddetti fenomeni sovranisti sta creando una situazione complessiva nella quale gli antichi auspici europeisti non godono di grande consenso tra i cittadini.

Con questo dobbiamo dunque ritenere che assisteremo ad un crollo dell’Unione politica del continente? Si tratta, insomma, di prendere atto che presto torneremo alle monete nazionali e ad avere guerre commerciali e militari nel cuore dell’Europa?

Evidentemente no, sebbene tuttavia sia giunto il momento di riconsiderare dopo sessant’anni di storia comune alcuni principi che ci hanno portato insieme fin qui, e che nel futuro dovranno necessariamente essere rinverditi con l’apertura di una nuova stagione.

La prima tappa, in questo processo di riconsiderazione profonda dell’identità comune, è costituita certamente da una seria analisi critica, simile a quella che comunemente si fa in un’azienda o in una famiglia quando le cose non vanno bene. Il progetto originario, pensato nel Secondo Dopoguerra, si ricorderà che era nato con una solida base umanistica, segnatamente quella confluita poi nella fase propulsiva dell’europeismo degli anni ’50: ritorno alla centralità della persona umana, costruzione di una comunità più estesa di quella tradizionale delle nazioni, che garantisse pace e sviluppo economico. Ecco il perché della nascita di accordi sul carbone e l’acciaio e poi della Comunità Economica.

Ebbene, il fatto che il fallimento negli anni ’60 di un secondo step di tipo politico abbia cambiato il modo di concepire l’Europa degli inizi, cominciando a presentare già il conto salato che avremmo pagato soltanto oggi, non deve farci perdere di vista però il punto centrale e l’obiettivo primario che ha partorito l’evoluzione iniziale.

Le nazioni sono un baricentro importante, certamente, della vita sociale, ma lo sviluppo e il progresso attuale non permettono più di affrontare da soli questioni economiche e sociali la cui portata è diventata sempre più internazionale e mondiale.

Un’Europa forte, allora come oggi, non soltanto garantisce la pace tra le nazioni, non soltanto garantisce la tutela di valori umani fondamentali, ma è il baricentro politico per un’adeguata etica del lavoro, indispensabile per completare il processo storico di umanizzazione.

L’Occidente, lo hanno ricordato a più riprese Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha un’identità particolare costituita dalla sua vocazione all’universalità dell’uomo. Questa eredità cristiana e ellenico-romana non può vivere a pieno in un contesto troppo limitato, e, al tempo stesso, non può essere dispersa in un relativismo puramente particolaristico, nel quale il valore assoluto della persona umana, sia derubricato a vantaggio di altri principi religiosi e politici diversi.

Questa vocazione particolare all’universalità dell’uomo, all’espansione della persona nella famiglia e nella comunità, è all’origine del tentativo di introdurre a livello comunitario adeguate politiche sociali. Un intento quest’ultimo, come ha ricordato anche recentemente in un’intervista al Sole24Ore Papa Francesco, non può essere umiliata da interessi finanziari improduttivi e da politiche di puro potere.

Veniamo così con agilità al problema vero di oggi. Esso si presenta sotto forma di un’opzione fondamentale. O l’Unione Europea saprà riformarsi in senso sociale, oppure la partita aperta da queste necessità verrà risolta in un contesto nuovamente nazionale.

È questa la provocazione che proviene dai sovranisti, e a questa provocazione si deve rispondere mediante non nuove politiche finanziarie e atteggiamenti istituzionali ostili ai popoli, ma attraverso solide politiche sociali che mettano la persona al centro e al vertice di ogni interesse, specificamente dal punto di vista del lavoro e della garanzia di crescita nell’ordine e nel progresso.

Per comprendere questo tipo di ragionamento e indicare come e in che modo sia possibile farlo, è utile tornare alle fonti classiche della filosofia occidentale. Aristotele, nella Metafisica, ci indica una possibile strada. L’unico modo per pensare in maniera valida il cambiamento, il divenire, è partire dalla forza vera e permanente presente nella realtà, da ciò che è in atto. Se non esistesse, infatti, nulla di positivo, semplicemente non esisterebbe nulla di esistente. Ora, la nostra Europa c’è, esiste. Non si tratta di fare delle operazioni di laboratorio per crearla dal nulla. Il problema è semmai che l’Europa vera e reale, l’Europa in atto, non è rappresentata adeguatamente dall’Unione Europea, inteso qui genericamente come organismo disposto a governare e a gestire l’interesse di tutte le nazioni.

Per far ripartire l’Europa, insomma, non bisogna creare i cittadini europei: bisogna riformare le istituzioni europee. E tale tipo di revisione, anche dei trattati se è necessario, deve andare in due direzioni fondamentali.

La prima è certamente introdurre forme più decise di democrazia. Se i cittadini francesi, tedeschi, spagnoli, polacchi, eccetera sono europei, lo sono immediatamente, essendo cittadini francesi, tedeschi, spagnoli, eccetera.

L’adesione di ogni persona alla sua nazione è già di fatto essere europei per natura. Tommaso d’Aquino parlava di un’unità per analogia, nella quale cioè i particolari sono tutti partecipi di una medesima identità, a partire dalla propria singolarità. Pertanto, un’Unione che si contrappone alle nazioni è come uno Stato che si contrapponga alla famiglia, e una famiglia che distrugga la persona: un operare caotico e disordinato.

Viceversa, muovendo i passi da ciò che è primo e in atto, la singola persona, ecco che emerge immediatamente, per gradi e in modo progressivo, il senso della nostra appartenenza al mondo che altro non è che appartenenza all’Europa, alla propria nazione, alla propria città, alla propria famiglia.

Unicamente se saremo in grado di concepire il futuro come sviluppo operativo della persona, saremo anche in grado di riavvicinare le istituzioni più universali a quelle più particolari, muovendo cioè dall’unità semplice, che è la persona, e andando verso l’unità più complessa, che è in questo momento l’Europa.

Vista in questa ottica, la problematica di oggi è risolvibile ritornando ai fondamenti filosofici dell’umanesimo cristiano, recuperando un sano principio di sussidiarietà sociale, il cui punto cruciale è costituito proprio da nuove e più concrete politiche sociali.

Ma cosa significa fare politiche sociali europee?

La prima tentazione che bisogna evitare, in questa direzione, è quella di credere che il lavoro sia una funzione assistenziale prodotta dalla politica. Anche nel dibattito italiano, infatti, si vedono sempre concorrere due concezioni opposte e sbagliate del lavoro. Da un lato coloro che pensano che il lavoro sia un flagello, un male indispensabile per il mantenimento dei bisogni individuali.

Se si pensa in questi termini, ecco che inevitabilmente si considera accessorio il lavorare e si considera essenziale il dare risorse da spendere. Per l’uomo non basta avere da mangiare, da vivere, da spendere, ma ogni persona ha bisogno di lavorare per essere autenticamente persona.

Il lavoro, come ha spiegato la Laborem exercens di Giovanni Paolo II, è intrinsecamente un atto umano, senza il quale la persona è mutilata nella sua essenza. Semmai il problema è lo sfruttamento del lavoro, operato dal capitale, che finisce quasi sempre per trasformare anche la persona in strumento e mezzo per la realizzazione di altre persone.

L’altro errore, opposto al precedente, è quello di considerare il lavoro come essenza della persona. Il Marxismo è stata l’ideologia che più ha investito su questa falsa idea. Il lavoro è una potenza naturale della persona, infatti, e non esaurisce tutto quello che ciascuno di noi è. Aristotele, non a caso, metteva al vertice della felicità la contemplazione, e Tommaso d’Aquino gli faceva eco, dicendo che azione e contemplazione sono due aspetti entrambi necessari ed entrambi attivi della persona: tuttavia, la felicità non è soddisfare le proprie ambizioni, anche le ambizioni buone e positive, divenendo ingranaggio di un sistema o pensando la società come mezzo e l’altro come concorrente.

Lavorare significa essere; e l’essere personale è sempre relazionale. Perciò non può esistere una comunità che non sia fondata sulla condivisione del lavoro, sul mutuo scambio generoso tra persone, sulla realizzabilità insieme della libertà di ciascuno.

Anche un problema come quello dell’intolleranza, suscitato oggi dalla mancanza di integrazione tra cittadini e stranieri, è risolvibile unicamente attraverso il lavoro. Il lavoro completa, integra e svela umanità.

La nuova Europa, dunque, dovrà necessariamente tornare su questi fondamentali etici dell’Occidente. Per farlo dovrà non soltanto sciogliere le contraddizioni tra istituzioni nazionali e internazionali, locali e generali, ma dovrà inevitabilmente promuovere un nuovo modo di concepire il lavoro e la vita sociale.

Nel pensiero filosofico classico, raccolto in buona sostanza nella Dottrina Sociale della Chiesa, possiamo trovare molti suggerimenti importanti, in questa direzione. Sia Platone che Aristotele, ad esempio, invitano a considerare sempre due aspetti fondamentali: la centralità della persona e la natura sociale della vita. E la Chiesa ha fatto sua questa indicazione, integrandola con il messaggio pienamente umano del Vangelo.

Questi due pilastri sono oggi assenti e sconosciuti nella nostra Europa. E l’Europa per questo è in crisi d’identità.

Una buona politica sociale dovrebbe partire proprio dalle condizioni oggettive che permettono all’uomo di vivere bene, e non soltanto di vivere. E vivere bene è vivere per gli altri, facendo in modo che l’amore e la generosità sgorghino come la vera essenza della libertà.

Nessuno è felice quando vive chiuso nel proprio egoismo. Ed espressione di questa smodata pulsione a se stesso non è soltanto l’individualismo, ma anche il culto del potere politico, sia esso nazionale, statale e continentale.

La logica del mercato non può essere cancellata con la logica della pianificazione. Quello che conta è l’equilibrio trai diversi aspetti relazionali della persona, e il ritorno a concepire le finalità sociali, altruiste, come superiori a quelle individuali ed egoiste.

Un’Europa, in cui le persone possano lavorare per creare una famiglia, creare una famiglia per vivere in una comunità, e avere comunità in pace tra loro: questa è l’Europa che vale la pena di sognare. Perché questa è l’Europa di cui il mondo ha bisogno, essendo l’europa aperta che può integrare e produrre benessere.

Se dovesse crescere, sulla base di solidi principi, una nuova idea sociale del lavoro, si genererebbe anche una visione più umana della vita, e in tal modo si costruirebbe un’Europa più cristiana.

Il fatto che i partiti tradizionali non abbiano mantenuto fede a questi presupposti, non abbiano saputo creare condizioni attrattive di lavoro e positive sulla vita, è la ragione più grave della crisi che stiamo vivendo, una malattia la cui soluzione risiede esattamente nelle nostre radici culturali e religiose.

L’auspicio, in definitiva, è che la contestazione provocata dai movimenti nazionalisti e sovranisti, i quali tentano di dare una risposta neo corporativa e chiusa alla domanda della gente comune, sappia aprire un cammino di riforme che permettano, specialmente alla grande area popolare, il recupero di un patrimonio di idee e valori che non sono iniziate con Schuman, De Gasperi e Adenauer, ma con Sant’Agostino e San Tommaso, una risorsa quindi che non può considerarsi esaurita nel passato, ma generatrice di avvenire.

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