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L’inizio della fine. Né sovranisti, né populisti

Che la propaganda piuttosto delle decisioni fosse la “cifra” del governo gialloverde, lo capimmo immediatamente. Non avemmo bisogno dei proclami bislacchi e dei provvedimenti vendicativi (contro la classe politica del passato) attuati nel volgere di pochi giorni dall’insediamento delle Camere per convincerci che la “revolucìon” pentastellata-leghista si sarebbe arenata sul bagnasciuga dell’incoerenza, dell’incertezza, del confusionismo programmatico e del sostanziale tradimento dei rispettivi elettorati di riferimento. La conferma, tuttavia, che abbiamo avuto dalla vicenda della manovra economica ci rafforza nell’idea che il varo della strana coalizione, o meglio, il bizzarro “contratto di governo” è stato un pessimo affare per il Paese, i cittadini, la politica e gli stessi movimenti che si sono avventurati sull’impervia strada.

Bastava dare un’occhiata ai giornali per fugare qualsiasi pur timido ottimismo sulla tenuta dell’ibrida compagine partorita da due fazioni avide di potere e di null’altro, preoccupate se non di sostituire la classe che le aveva precedute. Tutto le divideva e tutto le divide. In termini ideologici (scusate il parolone probabilmente inopportuno considerando il livello intellettuale e culturale dei protagonisti) e perfino antropologicamente (Di Maio non si offenda, non è una valutazione diffamatoria). Eppure stanno insieme, giocano quotidianamente con balocchi pericolosi da maneggiare come lo spread, l’impoverimento degli italiani, il declassamento economico, la guerricciola con l’Unione europea. Ma in concreto che cosa hanno partorito? A parte il taglio dei vitalizi (inutilizzabile finanziariamente a beneficio dei cittadini poiché i presunti risparmi saranno congelati dal Parlamento in attesa dell’esito dei ricorsi presentati dagli aventi diritto), questi arrabbiati soloni, dèì furenti di una Repubblica tutta da inventare – che difficilmente inventeranno – hanno varato la più risibile, grottesca, contraddittoria manovra economica, la vecchia Finanziaria per intenderci, che mentre veniva approvata già subiva sostanziali cambiamenti, come quello dell’accantonamento della defalcazione delle pensioni superiori ai 4500 euro misteriosamente risolto in un taglio lineare, o meglio, in un contributo di solidarietà, di nessun impatto significativo per soli tre anni. Dove non ha potuto Juncker è riuscito Salvini, evidentemente, allertato dal suo fido Giorgetti che deve averlo convinto a non assecondare Di Maio pena la perdita dei consensi nel ricco bacino elettorale del nord.
E così è stato riposto un asset che avrebbe dovuto essere qualificante nella nuova legge di bilancio.

Del reddito di cittadinanza gli stessi pentastellati ne hanno fatto una caricatura rendendosi finalmente conto che le risorse non bastavano per sostenere il peso di un obolo destinato a tutti i nullafacenti ed hanno alzato le asticelle delle condizioni per essere ammessi al beneficio in maniera tale che soltanto qualcuno si azzarderà a chiederlo.
A margine di tali ameni passi indietro gabellati per responsabilità, restano cosucce che non favoriranno la crescita, obereranno il ceto medio, spalancheranno praterie di disagio agli imprenditori (grazie anche al famigerato decreto dignità) ed ai giovani resteranno soltanto parole dal sen fuggite al duo Di Maio-Salvini che, sia detto per inciso, non sono né populisti, né sovranisti (ed il secondo non è neppure di destra), ma espressioni del “Masaniellismo” più puro, radicato da tempo nel Mezzogiorno e finalmente approdato nel settentrione. Dovendo qualificare qualcuno in un certo modo sono venute fuori quelle definizioni che ricorrono costantemente, ma tanto il populismo che il sovranismo (inesistente nella dottrina politica che conosce soltanto il concetto di sovranità declinato in maniera ben diversa da come vorrebbero certi accattoni di parole piuttosto che di idee ed è un dato primario e centrale della politica, di qualsiasi politica), a Di Maio e Salvini non interessano minimamente inclini come sono a concentrarsi sull’occupazione dello Stato, in maniera un po’ più clientelare del passato e indubbiamente più aggressiva e volgare.

Se i governanti gialloverdi immaginavano di costruire i presupposti di una “decrescita felice” (l’idea ha una sua dignità, come ha dimostrato Serge Latouche) non ci sono riusciti: alla politica di austerità che sostengono di contrastare, hanno sostituito una politica pauperista volta ad alimentare l’odio sociale e a costruire autostrade autoritarie degne di Maduro.

La manovra, la legge di bilancio, la follia di giocare con i “numeretti”, come dicono, per far vedere che la fatidica soglia del 2,4% suoni come uno schiaffo all’Europa, senza accorgersi che farà male a noi italiani, fanno parte del sontuoso ballo macabro che va in scena a palazzo Chigi quotidianamente praticato da dilettanti allo sbaraglio. Democraticamente votati, sia chiaro. Ma la democrazia è volubile, i voti sono volatili. Ed i sogni, si sa, spesso si trasformano in incubi, repentinamente.
La campagna elettorale si si avvicina a rapidi passi. I conti pubblici sono ancor più insicuri. L’Italia è frastornata. Dopo cinque mesi non si può certo dire che il “governo del cambiamento” abbia prodotto poco…

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