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Numeri contro. Trump verso le elezioni midterm, fra sondaggi e Borsa

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Quella del presidente americano Donald Trump non è stata una settimana facile, perché ha dovuto combattere contro numeri non proprio favorevoli, che indicano in generale una fase di rallentamento della spinta propulsiva che lo ha portato alla Casa Bianca.

Sono i giorni conclusivi per la campagna verso le elezioni di metà mandato (le Midterms, come dicono gli americani), e il presidente è impegnato in incontri e comizi che dovrebbero servire a movimentare la pancia del corpo elettorale repubblicano, ma non stanno dando risultati straordinari. Il lavoro seriale dei siti di statistica, da FiveThirtyEight guidato da Nate Silver (un’istituzione) a Vox, dice che la probabilità generale di riconquista della Camera da parte dei democratici oscilla tra il 70 e l’80 per cento, e altro sondaggi sull’enthusiasm gap tra Dem e Rep vedono i primi considerare le elezioni del 6 novembre “importanti” in maniera maggiore dei conservatori – e questo significa che, in teoria (perché la statistica dà dati relativi), più elettori democratici dovrebbero recarsi ai seggi con entusiasmo.

La forbice sulle possibilità democratiche si è ridotta leggermente su tutti i fronti, compreso l’approval presidenziale tornato sopra al 40 per cento sulla media rilevata, un paio di settimane fa, dopo l’audizione di Brett Kavanaugh, il giudice nominato da Trump alla Corte Suprema il cui processo di incarico è stato rallentato da alcune denunce di molestie sessuali contro di lui (almeno tre casi, successi anni fa). Kavanugh ha mobilitato i repubblicani dopo la sua trumpianissima audizione in Commissione Giustizia al Senato, piaciuta agli elettori per i toni aggressivi con cui ha attaccato, per esempio i Clinton e un complotto del Deep State per non farlo eleggere. Però, un sondaggio condotto in questi giorni da Washington Post e ABC ha mostrato che in realtà l’effetto Kavanaugh è stato piuttosto relativo, anzi in generale la sua nomina definitiva non piace agli americani, e più non ha fatto altro che calcare le divisioni esistenti tra i due schieramenti.

Giovedì il presidente Trump ha avuto a che fare con altri numeri, che hanno un impatto anche su questi dati elettorali dei sondaggi: i titoli nelle borse di mezzo mondo sono crollati (Wall Street ha perso più del 3 per cento, il peggior calo negli ultimi otto mesi, l’indice Nikkei di Tokyo è sceso quasi del 4, Hong Kong del 3,25 e Shanghai del 2,5 per cento, dati peggiori di quest’ultimo paio d’anni: anche a Sydney la borsa è andata giù del 2 per cento, tornando su quote di scambio di giugno). Trump se l’è presa apertamente, in un modo insolito e tutt’altro che protocollare (ma anche per questo piace ai suoi fan), con la Federal Reserve, ossia la banca centrale americana dove un tesoriere da lui nominato, Jerome Powell, ha deciso di rialzare i tassi sul prezzo del denaro visto che l’economia americana corre.

Il rialzo dei tassi era un passaggio atteso e logico, ma Trump ha parlato prima di un rally elettorale in Pennsylvania e ha detto che è vero che “è una correzione attesa da tempo, ma con cui non sono affatto d’accordo. Penso che alla Fed siano impazziti”. In Pennsylvania il candidato democratico al Senato Bob Casey è in stra-vantaggio rispetto al repubblicano, mentre per i seggi alla Camera la partita è un po’ più aperta (con i democratici in vantaggio). La batosta subita dalla borsa, dopo che per mesi Trump ha battuto sulla crescita economica, finanziaria, lavorativa, come cartina tornasole della qualità positiva della sua amministrazione, doveva essere protetta agli occhi degli elettori.

Ma il calo delle borse, secondo gli analisti, più che al rialzo dei tassi della Fed è da addebitarsi alla politica di scontro commerciale che Trump sta adottando contro la Cina, che è andata a indebolire il settore delle tecnologie, per anni traino del mercato finanziario. Da qui, un altro numero negativo per l’amministrazione Trump è quello uscito dal bollettino su import/export del dipartimento del Commercio: a settembre il surplus commerciale di cui la Cina gode sugli Stati Uniti ha fatto segnare quota 34,1 miliardi, con un aumento del 13 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno.

Le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti hanno almeno temporaneamente sfidato le previsioni secondo cui si sarebbero indebolite dopo essere state colpite da tariffe punitive che arrivano fino al 25 per cento, decise da Trump nell’ambito della lotta globale contro Pechino, policy su cui Trump ha investito molto capitale politico sia interno che internazionale. E settembre ha fatto segnare il secondo mese record dopo agosto – e questo nonostante proprio a settembre la Casa Bianca abbia lanciato la seconda, terribile ondata di dazi su oltre 200 miliardi di prodotti.

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