Tutto il mondo ha parlato della sentenza di assoluzione di Asia Bibi, accusata di blasfemia con il rischio di una condanna a morte in Pakistan, (in foto la figlia in Italia nel 2015). Un enorme sollievo per tanti, forse per tutti. Ma di che sentenza si tratta? Un caso isolato, irripetibile? O la spia di un processo in atto tra tante difficoltà, ma rilevante?
Innanzitutto, si tratta di una sentenza di 57 pagine che oltre alla ricostruzione dei fatti e alla mancanza di prove a carico dell’imputata finalmente assolta, dopo nove anni di prigione, offre una vasta panoramica su alcuni cardini della giurisprudenza islamica: oltre alla tolleranza e accettazione dell’altro, innanzitutto l’altro monoteista, che il professor Paolo Branca, uno dei più autorevoli docenti di Islamistica in Italia, professore all’Università Cattolica di Milano anche di Lingua e Letteratura Araba, sintetizza così: “I riferimenti religiosi sono rilevanti perché il Pakistan è una Repubblica islamica. Ma non è corretto dire che sia quello sia altri Paesi siano governati in base alla sharia perché la sharia non è mai stata codificata, è una giurisprudenza e quindi convive con leggi, codici, costituzioni”. È la storia antica a dirlo. “Una volta divenuti sovrani di un immenso impero che in circa un secolo, dopo la scomparsa del Profeta, si estendeva dalla penisola iberica ai confini della Cina e dell’India, i Califfi furono essenzialmente impegnati nel difendere la propria legittimità di fronte a contestazioni interne e nemici esterni, né avrebbero potuto o saputo uniformare dal punto di vista giuridico terre così varie, di antica civiltà, con classi dirigenti locali raffinate e ben più esperte nell’amministrazione specie di grandi vallate irrigue (si pensi all’Egitto e alla Mesopotamia) rispetto ai nuovi conquistatori nomadi provenienti dall’arida Arabia. Del resto lo stesso diritto islamico attendeva ancora di essere sistematizzato: al principio non v’erano che le scarse prescrizioni del Corano (si calcola che i versetti giuridici siano solo poche centinaia su un totale di oltre seimila) e i Detti di Maometto ancora non verificati né raccolti nelle grandi opere che avrebbero costituito il corpus degli hadith o Sunna del Profeta. Quanto al consenso e al principio di analogia, le due altre ‘fonti’ che sarebbero state riconosciute dai giurisperiti, occorreva ancora del tempo affinché si affinassero precisando i metodi e le finalità cui sarebbero state destinate. Ancora una volta, dunque, come spesso accade nella storia, la prassi precedette la teoria e si può in parte dire che quando la sistematizzazione di una materia giunge al punto più elaborato e raffinato, la realtà non vi corrisponde già più. Tutto sommato le norme del culto, ma anche molte disposizioni per numerosi casi concreti della vita individuale e collettiva, restarono in vigore a lungo in società sostanzialmente tradizionaliste e dove anzi le vicissitudini politiche avevano interrotto dinamiche fortemente evolutive proprie dei primi secoli, per lasciar spazio al lungo periodo della cosiddetta decadenza. Fu proprio la decadenza a veder per così dire ipostatizzare il concetto e la funzione della shari’a: il caos seguito alle devastazioni operate dai Mongoli, la fine delle grandi dinastie, la parcellizzazione dell’impero islamico partite dal XIII secolo, con i concomitanti attacchi delle Crociate e la Reconquista in Spagna, oltre ai mai sopiti conflitti settari interni alla Umma, fecero percepire il campo del diritto come l’ultimo baluardo per difendere l’islam da un possibile collasso totale”.
Detto questo per il passato remoto, per il passato recente Paolo Branca ritiene indispensabile evidenziare che “non poche sono state le responsabilità delle potenze coloniali – la Gran Bretagna in India, l’Olanda in Indonesia, la Francia altrove, e insieme a Gran Bretagna e Russia nei confronti dell’impero Ottomano – nel favorire o imporre innovazioni che erano finalizzate a tutelare i propri interessi o a sistematizzare ciò che ai loro occhi appariva incongruo o caotico, ponendo così le basi di una crisi profonda e irreversibile nella visione classica del diritto islamico. Non solo nuovi istituti e norme di stampo occidentale si affiancarono a quelle tradizionali, ma la stessa idea di codificare ciò che per secoli non lo era mai stato e la trasformazione delle istituzioni locali sul modello degli Stati moderni europei ebbero alla fine un effetto dirompente. Se le leggi del cosiddetto statuto personale rimasero più a lungo protette da troppo vistosi mutamenti, ciò dipese sia dalla volontà dei musulmani di continuare ad aderirvi, sia dallo scarso interesse delle potenze coloniali a mettervi mano. Ma ciò, in definitiva, portò a una specie di sdoppiamento del sistema giuridico in cui coesistevano due filoni paralleli e indipendenti che alla fine non avrebbero potuto perdurare senza gravi squilibri e contraddizioni”.
Inquadrato così il problema giurisprudenziale torniamo alla sentenza e il professor Branca sottolinea che, nella parte relativa alla giurisprudenza islamica, il testo sottolinea che è condannato dall’Islam anche chi calunnia il prossimo, come Asia Bibi, e che è definito peccato il parlare male del Profeta, ma anche il parlare male dei cristiani. La giurisprudenza islamica fa i conti con il Corano, “dove mai è scritto che si deve uccidere l’apostata o lapidare l’adultera”. Certo, con la giurisprudenza islamica fa i conti anche la tradizione, e nella tradizione è scritto che il Califfo Omar, disse che lui “ricordava un certo versetto, ma se poi è sparito e nel Corano che noi conosciamo non c’è vorrà dire che ha prevalso la misericordia”.
Il discorso sulla portata della sentenza di assoluzione di Asia Bibi potrebbe proseguire per ore, entrando nell’interpretazione della giurisprudenza, ma anche nell’interpretazione di quanto rumore facciano tesi estremiste o integraliste rispetto ad altre tesi, o ad altri comportamenti, che tali non sono. Così Branca ricorda, ovviamente, la recente legislazione marocchina che consente la conversione, ma ricorda anche il caso tunisino, nella Tunisia del partito islamico di Ghannouchi, nella quale alla legge che definiva le donne complementari all’uomo tante di loro obiettarono pubblicamente che erano “uguali” e non “complementari”.
“È molto rilevante tenere a mente che anche in India, dove i musulmani convivono con la maggioranza induista, la Corte costituzionale ha recentemente proibito il triplice ripudio. Il ragionamento dei giudici è convincente e importante: se Dio ha voluto che il ripudio debba essere ribadito tre volte vuol dire che voleva sottrarre all’impeto o alla rabbia del momento una decisione così grave come la rottura di una famiglia. E così il triplice ripudio nel quale l’uomo pronuncia per tre volte di seguito il ripudio facendolo diventare definitivo è stato bandito perché tradisce lo spirito dell’indicazione divina. Ma il fatto più rilevante è che c’erano migliaia di donne in strada a festeggiare in quelle ore”. Segno che, a suo avviso, esiste un’opinione pubblica aperta, contraria a interpretazioni oscurantiste. La sua idea è che stia prendendo corpo in molte società, prioritariamente tra i giovani, tra le donne e tra le borghesie urbane una distinzione tra peccato e reato, come indica il fatto che molti in Marocco “rivendichino di poter mangiare per strada durante il Ramadan, visto che stanno commettendo un peccato e non un reato, e di questo risponderanno a Dio”.
Insomma, seguendo il grande studioso dell’Islam, si arriva a capire che se in un Paese come il Pakistan, tormentato da corruzione, disoccupazione a tante altre emergenze, si può arrivare a temere mobilitazioni estreme contro Asia Bibi e chi l’ha assolta ciò appare il prodotto di un meccanismo di “distrazione di massa” dai veri problemi, che come in tanti altri contesti muove “la rabbia popolare usata dai regimi o da altri potentati” in chiave di rancore anticoloniale, antieuropea, antioccidentale o antisraeliana. Dunque è l’alleanza tra persone di buona volontà la vera chiave di volta in un’epoca globalizzata per sconfiggere usi politici di sentimenti religiosi ancorati alla rabbia, allo spirito identitario, all’ignoranza, all’arroganza della maggioranza e alla rabbia dovuta alla condizioni di vita, alla miseria, alla corruzione, che molti regimi e potenti influenze non intendono certo favorire.