“Una cosa è, correttamente, spendere meno; un’altra è avere come unico obiettivo la riduzione dei costi. Un po’ come accade in qualunque famiglia: se devi dare a tuo figlio un alimento piuttosto che un altro, gli dai quello più opportuno”. Sono le parole di Rosaria Iardino, esperta di diritti civili e politiche sociosanitarie e storica attivista dei diritti dei malati, che Formiche.net ha intervistato a margine dell’evento di presentazione della presentazione della ricerca “Farmaci Biosimilari: diffusione e quadro regolatorio” tenuta al Senato il 27 novembre e organizzata dalla Fondazione The Bridge, di cui Iardino è presidente. Hanno partecipato, tra gli altri, la senatrice Maria Rizzotti, membro della Commissione Igiene e sanità; l’onorevole Fabiola Bologna, membro della Commissione Affari sociali e l’onorevole Rossana Boldi, vicepresidente della Commissione Affari Sociali. A presentare i risultati della ricerca, Alessandro Battistella del centro studi della Fondazione The Bridge.
Quali sono i grandi vantaggi dei farmaci biosimilari e quali, se ci sono, i rischi?
Il vantaggio è che si risparmia. Il rischio è che il biosimilare venga utilizzato come leva per non dare la migliore terapia al paziente. Che si punti, insomma, solo sul risparmio senza mettere al centro le esigenze terapeutiche del paziente.
Con il fine preminente e pressante del contenimento della spesa sanitaria, infatti, non si rischia che i biosimilari piuttosto che diventare un’alternativa valida, diventino la sola alternativa?
È proprio quello che dico. Una cosa è, correttamente, spendere meno; un’altra è avere come unico obiettivo la riduzione dei costi. Un po’ come accade in qualunque famiglia: se devi dare a tuo figlio un alimento piuttosto che un altro, gli dai quello più opportuno. Il traguardo a cui mirare deve essere sempre la migliore cura del malato. Il biosimilare, quindi, non può diventare un mantra: talvolta un determinato paziente, per esigenze cliniche, può avere invece bisogno dell’originator.
L’informazione sanitaria nei confronti del paziente è spesso carente; gli argomenti sono per loro natura difficilmente comprensibili per i pazienti, che spesso restano all’oscuro del trattamento cui sono sottoposti. Cosa potrebbe fare il sistema sanitario in tal senso?
La cosa che il paziente deve sapere è che riceverà sicuramente il trattamento migliore per la sua patologia. È la libertà prescrittiva che lo mette tranquillo. Ma se la libertà prescrittiva viene annullata, è ovvio che il paziente non sarà tranquillo. È il sistema che con la tranquillità dei propri clinici dà tranquillità ai pazienti e non viceversa.
A proposito di libertà prescrittiva, quanto è effettivamente rispettata e quanto, invece, è minata da altre esigenze?
Noi viviamo due paradossi. Da un lato la libertà prescrittiva è sancita a livello legislativo. Dall’altro si rischia di arrivare al paradosso di allungare le liste di attesa di chi ha diritto alle cure pur di usare un biosimilare. Ecco, la libertà prescrittiva deve essere scevra da questo condizionamento, generato in primis proprio dallo Stato.
Parliamo ora di switch terapeutici. Spesso risultano ottimali, ma talvolta vengono adottati senza tener conto del contesto specifico. Faccio un esempio: un paziente è al quinto ciclo di una terapia di sei cicli. È corretto cambiare la terapia, soprattutto in caso di malattie che mettono il paziente in una condizione di equilibrio severamente fragile?
Il rispetto del paziente prevede che se un malato inizia il ciclo di una terapia e il suo corpo risponde bene a quella molecola, non gli si può cambiare terapia, altrimenti non solo non si presta un servizio al sistema, ma gli si crea addirittura un danno. Il ciclo terapeutico per me è fondamentale; come Fondazione riteniamo opportuno, ad esempio, lo switch in malattie come l’artrite reumatoide o il morbo di crohn, che non hanno una fine. Ma nel momento in cui un malato inizia un ciclo con una determinata molecola deve continuare con quella molecola. E vale anche per i farmaci biologici. Una terapia va sempre portata a conclusione di ciclo. Qualora poi se ne debba iniziare un altro, allora si può anche usare il biosimilare, ma a ciclo iniziato, lo switch, soprattutto per alcune patologie, è un danno al paziente. Bisogna trovare un equilibrio. La nostra Fondazione è probiosimilari, ma se usati con intelligenza e non esclusivamente per i bilanci delle Regioni.
Questo vale, se non sbaglio, soprattutto per i malati oncologici…
L’oncologia è sicuramente uno dei settori più delicati. Non voglio dire che sia più importante dell’artrite reumatoide, perché ogni patologia ha la sua dignità e la propria importanza per chi la vive. Ma nell’oncologia se si sbaglia terapia o si lede qualche meccanismo c’è in gioco la vita delle persone. Mentre nell’artrite reumatoide si può sempre aggiustare il tiro – e avviene spessissimo sia con i farmaci biologici sia con i biosimilari, in oncologia o in altre terapie è meglio usare quello che si conosce bene e non imboccare strade nuove. La cautela e la prudenza non sono mai troppe.