Quanto deve preoccupare la flessione del terzo trimestre? Com’è noto, l’Istat ha certificato una “crescita zero”. Eventualità alla quale, nonostante le lacrime da coccodrillo, non eravamo più abituati. Al contrario dagli inizi del 2013 si era vista una crescita continua. Per carità nulla di trascendentale, considerati i valori fin troppo contenuti. Comunque meglio di un calcio sugli stinchi.
L’Italia è entrata all’interno di un piccolo vortice che riguarda una zona ben più ampia. È l’intera eurozona ad essere calata in un cono d’ombra, con un tasso di crescita che si è dimezzato rispetto al periodo precedente: dallo 0,4 allo 0,2 per cento. La caduta, per la verità, non è stata uniforme. La Francia, ad esempio, cresce dello 0,4 per cento, grazie al suo impianto “colbertista”: forti investimenti (più 0,8 per cento) e traino dei consumi (più 0,5 per cento).
Ancor meglio ha fatto la Spagna, mettendo a segno un tasso di crescita dello 0,6 per cento. Se si fa mente locale sulla situazione del Paese solo qualche anno fa (banche allo sbando, disoccupazione alle stelle e forte deficit dei conti con l’estero) i progressi sono stati impressionanti. Esponenti del governo gialloverde li attribuiranno alle forti manovre espansive degli anni precedenti (un deficit di bilancio superiore al 3 per cento) ed avrebbero ragione. Salvo poi sorvolare sulla diversità della politica economica perseguita non certo all’insegna del più bieco assistenzialismo.
Soffre, invece, la più potente economia europea. La Germania rallenta e trascina verso il basso, insieme all’Italia, il tasso di crescita medio dell’eurozona. Colpa soprattutto della crisi dell’auto, che paga duramente il dieselgate: la manipolazione dei dispositivi che controllano i flussi dei gas di emissione. Si stima che le relative vendite abbiano subito una contrazione superiore al 25-30 per cento. Ha poi un secondo problema: un tasso d’inflazione che ha raggiunto il 2,5 per cento, che innervosisce la Bundesbank. Colpa dell’eccesso di liquidità indotto dal quantitative easing, ma soprattutto dagli investimenti esteri in Bund. Sempre più titolo di riserva. Il Target2, che misura i flussi monetari in entrata, ha superato i mille miliardi.
Una buona parte della crisi italiana deriva proprio da quanto accade a Berlino. Sul fronte delle esportazioni, se la Germania ha il raffreddore, l’Italia un principio di polmonite. Un certo ristoro deriva dalla rivalutazione del dollaro, ma il paragone, in termini di volumi esportati, non regge. Ed ecco allora un primo motivo della crisi. Si è bloccato il motore più potente che, nei trimestri passati, aveva trainato l’economia. Quindi la precarietà della situazione finanziaria ha fatto il resto: soprattutto sul fronte degli investimenti, rallentati dal credit crunk e dalle mille incertezze della situazione politica. Gli stessi motivi che hanno frenato i consumi.
I dubbi maggiori riguardano, tuttavia, il futuro. Tutti – i principali centri di ricerca – scommettono su un 2019 appena scaldato da un tasso di crescita del Pil intorno allo 0,9 per cento. Molto al di sotto di quell’1,5 per cento, che rappresenta l’obiettivo del ministro dell’Economia Giovanni Tria. Un sogno, a quanto sembra, che rischia, tuttavia, di trasformarsi in un incubo. Non tanto a causa dell’aumento del rapporto deficit-Pil, che è pure importante. Quanto per il disarmo, in termini programmatici, che quest’eventualità comporta.
Se il deficit dovesse aumentare a causa di un eccesso nel tiraggio della spesa, il ministro dell’Economia potrebbe intervenire. Potrebbe ad esempio congelare i singoli capitoli con tagli di spending review o lineari. Potrebbe anche aumentare il prelievo fiscale, ottenendo maggiori entrate. Tutte misure che avrebbero l’effetto di un contenimento finanziario.
Ma se la crisi è prodotta da un’insufficiente crescita del Pil, rispetto alle previsioni iniziali, queste misure sarebbero precluse. Ogni intervento, come quelli indicati, avrebbe un forte effetto deflativo, che deprimerebbe ulteriormente l’economia, facendo crescere lo squilibrio di bilancio. Strada senza uscita, com’è evidente. Gli errori ne sono all’origine: nell’impostazione data alla politica economica. Si può anche pensare di gettare un po’ d’acqua nel deserto, ma se poi non nascono le rose, meglio non sorprendersi.