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Perché (anche) l’Italia fa orecchie da mercante sul Fiscal Compact

swg, copyright, Lega, Pisicchio

Qualche giorno fa il Parlamento europeo ha votato contro la proposta della Commissione di inserire il Fiscal Compact nell’ordinamento giuridico. Ci saremmo aspettati, salvo nostre eventuali sviste, che i grandi giornali italiani avessero dato alla notizia lo spazio che meritava. Almeno un articolo specifico. Per non parlare di un qualche commento da parte di editorialisti attenti a quel che succede a Strasburgo, sede per quanto contestata, dello stesso Parlamento.

Che non si tratti di una cosa di poco conto è facile vedere. Per la prima volta la maggioranza degli europei, per bocca dei propri legittimi rappresentanti, si è pronunciata contro le politiche di austerity. Fino a ieri considerate le panacee di ogni male. Il tutto mentre il governo italiano è impegnato in una dura battaglia per limitare i danni di una possibile procedura d’infrazione,il cui fondamento giuridico è appunto rappresentato da quelle regole che il Parlamento ha caducato.

Si dirà che quel voto conta poco. Il Fiscal Compact rientra nello schema degli accordi intergovernativi. Il Consiglio europeo, com’è avvenuto in altre occasioni, può fare orecchi da mercante e far finta che quel voto non vi sia mai stato. È, forse, l’obiettivo cui puntano Juncker e soci. Da sempre refrattari ad ogni interferenza da parte dall’unica Istituzione realmente democratica dell’Unione europea: legittimata dal voto popolare. Questo nell’establishment europeo. Ma in Italia?

Sorprende che nella lunga intervista concessa da Mario Monti, al Corriere della Sera (tutta protesa alla demonizzazione di Matteo Salvini) non vi sia alcuna traccia di questo avvenimento. Seppure per criticare quella decisione. E sullo stesso giornale un lungo articolo Mauro Magatti parla di andare oltre Maastricht, ma non accenna minimamente al primo passo compiuto nella direzione auspicata. È, infatti, evidente che se si rimane nello schema del Fiscal Compact, così com’è, ogni ipotesi di superamento è solo una chimera. Destinata a scontrarsi con il peso degli interessi costituiti.

Ed allora qual è la possibile spiegazione di tanta disattenzione? Una possibile risposta rimanda direttamente alle caratteristiche dell’establishment economico e finanziario del nostro Paese. I grandi gruppi, o quel che rimane, soffrono del cattivo andamento della borsa o degli spread che sottraggono risorse finanziarie, ma non vogliono correre rischi. Anche perché la politica governativa non offre le necessarie garanzia. Stanno quindi con i governi europei e non con il Parlamento. Scelta anche comprensibile, se il sistema politico italiano non avesse subito il terremoto che abbiamo conosciuto.

In questo secondo caso, la loro scelta non può che preoccupare. È sintomo di quel “sonnambulismo” di cui ha parlato Valdis Dombrovskis. Giudizio attribuito alle sole forze politiche di governo, ma che può essere tranquillamente riferito al complesso della società italiana. Un corto circuito che si può superare? Forse sì, ma solo ricostruendo una una visione realista della situazione del Paese: al di fuori di schemi precostituiti, che non reggono alla prova del budino.

Dal 2012 al 2017 il debito pubblico italiano è aumentato di circa 266 miliardi. Nello stesso periodo l’eccesso di risparmio interno, che non ha trovato forme di investimento nel Bel Paese è stato pari a 250 miliardi. A tanto ammonta il surplus cumulato degli avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Semplicemente trasferiti all’estero in puri investimenti di portafoglio (fondi comuni, obbligazioni ed azioni e forse qualche immobile). Se avessimo avuto una politica orientata allo sviluppo (meno tasse e più investimenti) ipotizzando un moltiplicatore minimo (pari ad 1), oggi il rapporto debito-Pil sarebbe pari al 100 per cento. Ben 30 punti in meno, com’era nel 2007, nonostante il più basso livello d’inflazione.

Se l’establishment non capisce questi numeri, si può sperare che sia la base “populista” del Paese ad impossessarsene? Eppure nel governo esistono uomini d’esperienza. Pensiamo a Giancarlo Giorgetti, che possono fare la differenza. Su cui riporre le necessarie speranze. Ma bisogna fare presto. Convincere i riottosi. Soprattutto i 5 Stelle, la formazione politica più fragile negli equilibri governativi, operazione indubbiamente non facile. Ma vale la pena tentare. L’Italia è uno strano Paese. Sempre capace di risorgere nei momenti di grande difficoltà. Non siamo ancora ad una Caporetto economica. Ma fin da ora è necessario riorganizzare l’esercito per una decisiva battaglia, come fu la controffensiva – almeno si spera – di Vittorio Veneto.


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