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Quanto profonda è la crisi fra Usa e Francia? L’opinione del generale Camporini

Che all’interno di un alleanza come la Nato un membro ne possa identificare un altro come “nemico potenziale” è difficile da digerire per chiunque. Figuriamoci per gli Stati Uniti di Donald Trump, per di più se a puntare il dito è Emmanuel Macron, erede di una storica ambizione a un’Europa a traino francese, affrancata dal pesante alleato d’oltreoceano. È così che Vincenzo Camporini, generale dell’Aeronautica, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e già capo di Stato maggiore della Difesa, legge la piccata reazione del presidente Trump al rilancio di Macron per “un verso esercito europeo”, il cui obiettivo (a detta del francese) sarà di garantire la difesa del Vecchio continente anche dagli Usa. A poco è servito l’incontro all’Eliseo tra i due, nell’ambito delle celebrazioni per i cento anni dalla fine del Grande guerra. Le pacche sulle spalle e le parole di amicizia non nascondo un profondo gelo, che dopo i dossier di Iran e clima si è esteso anche al concetto di “autonomia strategica” del Vecchio continente.

Trump l’ha definita “molto offensiva”. Lei come la legge l’idea di Macron di creare un esercito europeo che ci difenda anche dagli Stati Uniti?

La leggo con l’ottica del francese che ha delle ambizioni di potenza che vanno spesso al di là delle reali capacità, e che considera la Francia un partner alla pari delle grandi potenze, quando in realtà è comparabile con altri Paesi europei. Dovremmo capire in qualche veste parla Macron quando si riferisce a un vero esercito europeo. Se parlasse in qualità di leader di un’ipotetica futura Europa federale che si vuole contrapporre alle altre potenze globali, è chiaro che in queste possano rientrare anche gli Stati Uniti. Non è un segreto che l’Europa unita si prefiguri come un concorrente (non come un avversario) degli Usa. D’altra parte, se Macron parlasse nella sola veste di presidente francese, dimostrerebbe quell’ambizione di potenza che i leader d’oltralpe conservano dai tempi del Re Sole. È una mentalità che sovente troviamo negli esponenti politici che risiedono all’Eliseo.

Nello stesso tweet piccato, il presidente americano è tornato a redarguire gli alleati sul 2% del Pil da spendere per la difesa. È un obiettivo così rilevante per Washington?

Sì, per gli Stati Uniti è un tema decisamente importante. Eppure, se è vero che gli Usa spendono per la difesa più del 3,5% del proprio Pil, è altrettanto vero che hanno interessi globali e impegni importanti dall’Estremo oriente all’Africa. Comunque la differenza con quello che spendono complessivamente gli europei non è poi così eclatante. Sicuramente (e su questo Trump dovrebbe insistere se ciò non andasse incontro a certi pregiudizi americani) gli europei dovrebbero spendere meglio, integrando le capacità e aumentando il rendimento della spesa militare affinché non si discosti troppo da quello americano, che certo può contare su un unico cliente e su un unico comparto industriali. È chiaro che gli europei non stanno facendo abbastanza dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto da quello qualitativo. Poi, è bene evidenziare che la misura delle capacità militari non può essere fatta solo a partire da quanto si spende. Ci sono parametri che si misurano solo sul campo.

È effettivamente offensiva l’idea che “un esercito europeo” debba difenderci anche dagli Stati Uniti?

Sicuramente è qualcosa che non ci si aspetta da un alleato. Non dimentichiamoci che Francia e Stati Uniti sono infatti in un’alleanza che si chiama Nato. Che all’interno di essa si possa indicare qualcuno come un nemico potenziale è certamente difficile da digerire per chiunque, figuriamoci per Donald Trump.

L’impressione è che Trump se la stia prendendo soprattutto con l’European intervention iniative, lanciata dalla Francia ed estranea al contesto della Nato e dell’Unione europea, più che con l’idea di una difesa europea. È d’accordo?

Mi permetta di dubitare che il presidente Trump abbia tale contezza specifica su queste iniziative da poter esprimere un giudizio diversificato. Credo più che altro che si riferisca all’uscita di Macron, che per gli Stati Uniti tocca un nervo un po’ scoperto.

Ci spieghi meglio.

Fino al 1998-1999, gli Stati Uniti non hanno fatto molto per l’integrazione europea, soprattutto per quella della difesa. Ricordo che quando l’allora segretario di Stato americano, Madeline Albright, diede luce verde alla difesa europea sulle pagine del Times, pose una serie di condizioni, assolutamente ragionevoli, che ancora oggi danno una chiara idea sul fatto che un’Europea capace militarmente viene vista dagli Usa come subordinata alle esigenze della Nato, e non come soggetto indipendente. Trump ha espresso in modo molto vocale sentimenti diffusi nell’ambiente politico statunitense.

Ciò si lega alla questione della “autonomia strategica” del Vecchio continente. La Francia ha già dimostrato cosa intende con questa espressione. Quale è, secondo lei, la versione corretta che invece dovrebbe promuovere l’Italia?

“Autonomia strategica” significa la necessità, per i Paesi europei, di poter assumere iniziative che prevedano anche il ricorso all’uso dello strumento militare, senza dover contare sempre sulla benevolenza e sull’appoggio americano. Ci sono aree su cui gli Stati Uniti hanno interessi modesti, mentre da tempo assistiamo alla tendenza di progressivo ritiro da altre zone su cui gli europei conservano i propri obiettivi. È chiaro che dovremmo mantenere la possibilità di intervenire anche senza gli americani. Si tratta di avere capacità di intelligence, di targeting e di disponibilità logistica. Ricordo che durante la campagna libica, dopo qualche giorno gli europei avevano finito le munizioni.

Non è dunque un’indipendenza dall’alleato d’oltreoceano?

Assolutamente no. La distinzione è chiara e deve essere evidenziata e sottolineata. Indipendenza vuol dire poter attuare una politica a prescindere. Autonomia significa poterlo fare senza dover dipendere in modo puntuale dalle risorse altrui.

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