È iniziata solo ieri, ma pare che questa sia già un’altra settimana di inconvenienti e polemiche per la presidenza Trump. Per esempio: secondo prove consistenti raccolte dal Washington Post, Ivanka, la figlia primogenita (e preferita) nominata dal padre (presidente) consigliere dello Studio Ovale, avrebbe utilizzato nel 2017 un suo account mail personale per gestire anche la corrispondenza di lavoro dalla Casa Bianca. Dall’anno scorso si parla di questo, ossia del fatto che Ivanka non ha ascoltato le indicazioni del Secret Service, che obbliga all’uso di indirizzi governativi (sia per aumentare la sicurezza informatica, sia per trasparenza nell’archiviazione dei dati).
Soprattutto: Ivanka si sarebbe macchiata di un peccato identico a quello che è costato a Hillary Clinton la costruzione di un’enorme fetta della narrazione negativa che l’ha accompagnata durante le presidenziali del 2016. Ai tempi in cui era segretario di Stato con l’amministrazione Obama, la ex candidata democratica aveva infatti usato anche lei server privati per far passare conversazioni collegate al suo ruolo governativo – mail che poi non erano state fornite tra quelle da archiviare perché mischiate con quelle personali, e su cui poi aveva indagato l’Fbi trovando comunque nient’altro che “estrema negligenza” (furono le parole dell’allora direttore James Comey, star del buon governo per i repubblicani quando indagava su Clinton, caduto rapidamente in disgrazia sia tra i fan che per il presidente Donald Trump quando aveva iniziato a spingere sul Russiagate).
Dell’affaire Clinton, Emailgate era chiamato, Trump aveva parlato tantissime volte durante i suoi comizi, infiammando i fan. Chiamava la sua concorrente “Crooked Hillary”, la disonesta, e ne chiedeva pubblicamente l’arresto: “Lock her up”, gridava la folla durante i suoi rally elettorali. Ora, Ivanka, è in una situazione che, sebbene con varie differenze, nella narrazione che arriva al pubblico potrebbe sembrare identica a quella di Clinton due anni fa: ha scambiato centinaia di mail con centinaia di collaboratori e uomini del governo, messaggi che riguardavano le sue attività, dice l’inchiesta del WaPo.
È stato usato solo nella fase di transizione, risponde la difesa di Ivanka, e tutto è stato consegnato ai funzionari della Casa Bianca. Dagli ambienti attorno alla consigliera, esce anche che lei non fosse a conoscenza dell’obbligo di utilizzare il server governativo, ma potrebbero essere tentativi di giustificazione non troppo convincenti davanti a una Camera tornata da poco in mano ai democratici. I deputati, infatti, hanno la facoltà di chiedere approfondimenti sulla situazione: potrebbe essere una mossa politica offensiva, per creare un polverone attorno a Trump.
Nel frattempo, altri guai arrivano dal Congresso: tre senatori democratici hanno citato in giudizio Trump per aver nominato Matthew Whitaker procuratore generale. Accusano il presidente di aver violato la costituzione, scegliendo per l’incarico un elemento non nella linea diretta di successione del segretario (forzatamente) dimissionario Jeff Sessions. “Gli americani premiano un sistema di pesi e contrappesi, che la nomina dittatoriale del presidente Trump tradisce”, spiegano i tre senatori.
I consulenti legali del dipartimento di Giustizia hanno diffuso un memorandum di 20 pagine che giustificherebbe la scelta di Trump, ma i democratici cercano i cavilli costituzionali: sanno che Whitaker è stato in passato molto critico e scettico con l’inchiesta sulle interferenze russe alle presidenziali (il Russiagate), e temono che le cose possano cambiare in termini di libertà d’indagine, visto che andrà a dirigere il dipartimento che la sta conducendo – e lo sta facendo per conto di uno special counsel incaricato da Rod Rosenstein, che avrebbe dovuto essere il primo sulla linea di successione a Sessions, ma è stato scavalcato da Trump con la nomina di Withaker.
E a proposito di beghe legali, ieri la Casa Bianca ha ripristinato l’accesso alla sala stampa per Jim Acosta, giornalista della CNN noto per le sue domande pressanti al presidente, a cui era stato revocato il pass dopo una litigata con Trump (in diretta, durante una conferenza stampa). La CNN aveva avviato una causa contro il presidente, citando in giudizio sia lui che il Capo dello staff e quello del Secret Service. Un giudice aveva preliminarmente dato ragione al giornalista, e alla rete per cui lavora (che Trump inquadra tra quegli esempi di “giornalisti nemici del popolo”). La sentenza era in attesa di giudizio definitivo: poi lunedì la Casa Bianca ha riammesso Acosta e la denuncia è decaduta.