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Gli sviluppi del caso Khashoggi e le mosse saudite da Washington

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L’Arabia Saudita ha fatto sapere che processerà fino alla pena di morte cinque dei sospettati per l’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita del Washington Post ammazzato il 2 ottobre nell’ambasciata del suo paese a Istanbul da una squadraccia dei servizi segreti inviata da Riad per dargli una lezione per le sue visioni dissidenti. È l’estremo tentativo del regno per allontanare i sospetti di coinvolgimento nella vicenda dal governante de facto del paese, l’erede al trono Mohammed bin Salman.

Il procuratore che si sta occupando del caso ha spiegato che gli agenti dell’intelligence inviati in Turchia avevano il compito di rapire Khashoggi, ma non di ucciderlo: l’assassinio è stato frutto dell’azione di un team di agenti finito fuori controllo— una versione non nuova. Sono undici in totale le persone incriminate: il vice capo dell’intelligence, Ahmed al Assiri, vero capro espiatorio, e il consigliere per le comunicazioni del principe, Saud al Qahtani. Questi ultimi due sono uomini di assoluta fiducia di bin Salman, e dunque: o il principe sapeva, oppure a corte c’è stato un tentativo di sabotarne l’immagine (internazionale) e dunque il potere.

Forniti anche i dettagli temporali: la riunione per pianificare l’azione s’è svolta il 29 settembre. Ordine di ingaggio: riportare a casa Khashoggi e punirlo per i suoi collegamenti con gli odiati (dal regno) Fratelli musulmani e per le critiche, diffuse a milioni di persone attraverso uno dei giornali più potenti del mondo, contro il nuovo corso del potere saudita. Il team era composto da 15 elementi, l’obiettivo era intimidire il giornalista e convincerlo a rientrare in patria; se qualcosa fosse andato storto ci sarebbe stata la possibilità di usare la forza, ma solo per sedarlo, e poi portarlo via (una circostanza che però non collima troppo con la presenza di un anatomo-patologo sulla scena).

Secondo la procura saudita, è andata esattamente così: il 2 ottobre Khashoggi è entrato nel consolato, lo hanno fermato, lui si è ribellato. È nata una colluttazione, lo hanno sedato in modo pesante, al punto che ha perso i sensi e non sono stati più in grado di rianimarlo. A quel punto il cadavere è stato fatto a pezzi, e i resti consegnati a un contatto locale che ha provveduto al macabro smaltimento.

Riad dice di essere in grado di diffondere anche l’identikit del complice turco, oltre che di aver individuato i cinque responsabili dell’assassinio — Ankara, fin da subito coinvolta in prima fila, dice che quanto fornito ancora non basta. Il governo saudita dice di essere stato truffato dai suoi agenti, che hanno inviato in Arabia il filmato di uno degli operativi che, indossati gli abiti di Khashoggi, s’è allontanato dal consolato: per questo, in prima battuta, il regno ha sposato la tesi secondo cui niente era successo, perché il giornalista aveva lasciato l’edificio consolare – e quindi la sua sparizione non era collegata a qualcosa accaduto all’interno.

Mentre i sauditi cercano di proteggere in tutti i modi bin Salman, anche per salvaguardare quel che il sovrano rappresenta (il nuovo corso del potere nel regno, che vuol dare di sé un’immagine visionaria e per quanto possibile illuminata al mondo), dagli Stati Uniti arrivano un paio di contraccolpi. Washington, alleate ferrea saudita (che con l’amministrazione Trump ha rinvigorito il legame), è già sembrata spazientita per quanto successo.

Prima ha disposto lo stop ai rifornimento dei jet sauditi che martellano lo Yemen:  è un passo importantissimo, perché il rifornimento aereo era il modo più esplicito e pubblico (più discreto: il passaggio di informazioni di intelligence) con cui gli americani sostengono l’operazione con cui Riad sta cercando da tre anni di fermare l’emorragia prodotta dalla rivolta nordista degli Houthi, una setta sciita collegata (in modo sfumato) all’Iran. L’aiuto americano è un argomento scottante, perché i sauditi, nell’ambito delle loro operazioni, hanno prodotto migliaia di vittime civili.

Non c’è stato solo lo stop del link logistico, però: Washington ha anche esplicitamente chiesto la fine delle operazioni, invitando – con un ultimatum che scadrà tra un paio di settimane – le parti in causa a un tavolo di negoziazione. Mossa politica. Una fonte dal Golfo ci spiega – in forma anonima per non esporsi direttamente su faccende delicate – che gli Stati Uniti stanno “alzando la testa” sulle dinamiche in Arabia Saudita.

Oggi, poco dopo l’annuncio degli sviluppi sauditi sull’indagine, il dipartimento del Tesoro americano ha diffuso la nota ufficiale  in cui ha annunciato la decisione di sanzionare 17 funzionari del regno. Sotto la firma del segretario Steve Mnuchin, l’amministrazione americana ha agito secondo il Global Magnitsky Human Rights Accountability Act che consente al governo di colpire gli autori di violazioni dei diritti umani con sanzioni e blocca qualsiasi proprietà o interessi che gli individui hanno all’interno o in transito nelle giurisdizioni statunitensi. Tra quelli iscritti nel decreto c’è Saud al-Qahtani, Maher Mutreb, un subalterno di al-Qahtani e il console generale saudita in Turchia, Mohammed Alotaibi.

Secondo il segretario di Stato, Mike Pompeo, queste sanzioni sono “un passo importante nel rispondere all’uccisioni di Khashoggi”, assicurando che Washington farà tutto il possibile per punire e individuare i responsabili. E intanto sposa la linea dei monarchi: punizioni contro gli accusati.

Ieri però la Casa Bianca ha anche fatto sapere di aver individuato il nome per l’ambasciatore da inviare a Riad: il candidato, che dovrà passare sotto il vaglio del Senato, è il generale quattro stelle John Abizaid, il più longevo tra i comandanti del CentCom (il comando del Pentagono che coordina le operazioni in Medio Oriente).

La carica all’ambasciata è stata lasciata vacante per mesi, ma forse il caso Khashoggi ha imposto un’accelerazione anche su questo argomento e forse adesso Washington vuole qualcuno sul posto per curare i rapporti direttamente.

 



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