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Il segreto per unire le tribù in Libia? Il petrolio. Parla Giulio Sapelli

GIULIO SAPELLI DOCENTE capitalismo

Finito il chiasso delle opposte tifoserie, è tempo per un bilancio a freddo della tanto sospirata conferenza di Palermo sulla Libia del 12-13 novembre. Formiche.net lo ha fatto con Giulio Sapelli, professore ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano e consigliere di amministrazione della Fondazione Eni Enrico Mattei. Profondo conoscitore della diplomazia italiana in terra libica, Sapelli delinea un quadro di luci e ombre. “La conferenza è un passo avanti” dice ottimista, senza dimenticare i tanti, troppi errori commessi da una Farnesina più attenta all’audience mediatica che a una strategia di lungo periodo.

Professore, qual è il suo bilancio della Conferenza di Palermo?

È stato un passo avanti nella giusta direzione, che ha però solo parzialmente offuscato agli occhi della comunità internazionale la nostra debolezza diplomatica. In Libia abbiamo commesso errori gravi.

Cioè?

Abbiamo pensato di poter risolvere il problema dell’immigrazione dialogando con un piccolo gruppo di tribù. L’operazione di Marco Minniti ci ha sbilanciato verso il mondo tribale senza comprenderlo davvero. “Tribale” è un termine diminutivo, perché in fondo alcune di quelle tribù sono vere e proprie nazioni. Poi abbiamo puntato tutto su al-Sarraj, un uomo che non è riconosciuto da questo potere corporato libico e manca non solo di legittimazione ma anche di un esercito.

Quali sono state a suo parere le mancanze di questa conferenza?

La prima e la più importante è stata non invitare le città libiche. In Libia non ci sono solo nazioni e tribù. Centri come Zintan e Misurata contano anche di più delle tribù del Fezzan, sono vere e proprie Città-Stato. Abbiamo convocato solo un segmento della società libica, Macron invece aveva scelto di parlare con tutti. Il suo errore fu piuttosto di dialogare con gli interlocutori libici in funzione antiamericana e antirussa, cioè contro tutti, cadendo nel bluff di Trump, che ci ha voluto far credere che gli Stati Uniti non siano interessati alla Libia.

Una critica mossa da più parti al governo gialloverde è quella di un’eccessiva attenzione concessa al generale Haftar, che ha così ottenuto un ruolo pivotale che altrimenti non avrebbe avuto.

Non sono d’accordo. Haftar è davvero l’attore principale in Libia. Controlla tutta la Cirenaica, ha un suo esercito ed è l’unico che riesce ad avere dietro di sé la Russia e al tempo stesso a godere di un rapporto privilegiato con la Francia. È inoltre l’uomo dell’Egitto, che da millenni è convinto che la Cirenaica sia un pezzo del suo territorio.

Pare che la presenza di Haftar abbia giocato un ruolo nell’esclusione della delegazione turca dall’assemblea plenaria a Palermo, peraltro disertata all’ultimo dallo stesso generale. Ora Ankara è furibonda.

Un clamoroso errore escludere i turchi. È il prezzo da pagare per una conferenza a geometrie variabili, che ha visto da una parte gli ospiti “accreditati” e dall’altra gli outsider. Un altro errore è stato non preparare adeguatamente l’evento con i francesi, che infatti sulle colonne di giornali come Les Echos e Le Monde ci hanno massacrato. Ho l’impressione che la Farnesina abbia costruito la conferenza più sulle aspettative mediatiche che su una visione di lungo periodo.

Si è molto parlato della foto in cui il premier Conte unisce le mani di al-Sarraj e Haftar. Davvero basta una photo opportunity sulla scia di Pratica di Mare per risolvere i mali libici?

Questo è un vezzo italico. Antonio Salandra e Sidney Sonnino erano convinti di riuscire a mettere d’accordo gli imperi centrali. La Dc ha provato a mettere d’accordo Russia e Stati Uniti, e in parte ci è riuscita, almeno finché non è esploso il terrorismo islamico. Su quello scoglio furono immolati Craxi e Andreotti. Pensammo di poter continuare quest’opera di mediazione anche quando scoppiò la questione palestinese e iniziarono a incancrenirsi le divisioni nel mondo sunnita. Dopo l’attentato di Monaco questo sogno è stato messo da parte.

Insomma, come si può trovare trait d’union fra le tribù libiche? A Palermo è stata calendarizzata una grande assemblea nazionale per il prossimo anno, ma sono stati firmati solo memoranda generici…

Quando l’Italia colonizzò la Libia distrusse la setta religiosa senussita che unificó le tribù impedendo le lotte per il controllo dei pozzi d’acqua. Quando il colonnello Gheddafi ha fatto il golpe ha ripreso questa strategia, imitando in modo impeccabile il sistema di governo dei senussi e spartendo fra le tribù i guadagni del petrolio. Oggi è questa l’unica via: un controllo partecipato delle attività della Noc (National Oil Corporation, ndr).

L’ambasciata di Italia a Tripoli è attiva nonostante gli scontri, ma l’ambasciatore Perrone non c’è. Crede che la Farnesina dovrebbe reinviarlo in Libia?

È un fatto gravissimo che rientra nei danni del politicamente corretto applicato alla politica estera. Come possiamo fare una conferenza a Palermo sulla Libia senza prima rimandare al suo posto il nostro ambasciatore? Gli uomini di Eni in Libia rappresentano una parte importante del nostro Paese, ma non sono i portavoce della Repubblica. L’ambasciata italiana a Tripoli deve rimanere aperta e attiva, la ragion di Stato viene prima di tutto.


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