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Altro che Magneti Marelli, è sul 5G cinese che serve il Golden power

L’acquisizione di un “gioiello” tecnologico come Magneti Marelli da parte di un gruppo giapponese ha portato nuovamente alla ribalta a livello politico il tema del Golden power e della “emorragia” di know-how dal Paese. Ma per Carlo Alberto Carnevale-Maffè (nella foto) – docente di Strategia presso la Scuola di Direzione aziendale dell’Università Bocconi – i commenti politici in Italia (ed Europa) sembrano erroneamente indirizzati verso ingiustificate logiche protezionistiche, invece di pensare a intervenire sugli effettivi rischi per la sicurezza legati a tecnologie strategiche, come il 5G.

Professor Carnevale-Maffè, l’acquisizione di un gioiello tecnologico come Magneti Marelli da parte di un gruppo giapponese ha rilanciato a livello politico il dibattito sul Golden power. Qual è la sua opinione?

Al di là della polemica politica, penso che non avrebbe alcun senso invocare il Golden power su un’acquisizione come questa, o peggio, pensare di estendere l’impianto normativo esistente. L’Italia, in linea con le logiche europee, ha già regole sufficienti a proteggere gli asset strategici. Ricordo che il Golden power nasce per proteggere le infrastrutture critiche per la difesa e la sicurezza nazionale e, laddove siano concretamente messi in pericolo, l’approvvigionamento minimo e l’operatività dei servizi pubblici essenziali. Sento invece ripetere spesso che dobbiamo “difendere il nostro know-how”. Ma il know-how non necessariamente è legato alla garanzia di operatività dei servizi pubblici essenziali. Se il Golden power dovesse essere applicato a tutte le forme di know-how, andrebbe esteso anche alla formula della Nutella: non vedo chi possa dubitare del fatto che essa costituisca un approvvigionamento essenziale per il Paese…

Sbaglia allora chi parla di “shopping” di aziende italiane da parte di imprese extra-europee?

Non si tratta di “shopping”, ma di legittime scelte di investimento. Le aziende italiane comprano abitualmente compagnie extra-europee e viceversa: specie quando l’oggetto delle acquisizioni è costituito da asset intangibili, come appunto il know-how, è opportuno che possa dispiegare il massimo effetto di scala a livello globale, ampliando il proprio mercato potenziale, come è il caso di Magneti Marelli. La libera competizione entro contesti regolati è fatta anche di acquisizioni e di investimenti diretti esteri: il mercato internazionale del know-how va semmai incoraggiato, abbattendo le barriere e tutelando i legittimi diritti di proprietà, non certo mortificato. Se la nostra economia soffre non è certo a causa di ciò: semmai un certo ritardo nell’investire in capitale intangibile è elemento di scarsa competitività del Paese.

Che ne pensa, invece, di chi vorrebbe strumenti analoghi al Golden power per il mercato europeo?

Chi sostiene cose simili dimostra di non conoscere l’Unione europea e l’impianto del mercato unico. I vantaggi dell’integrazione sono proprio nell’avere un grande e ben regolato spazio concorrenziale comune, che favorisce le acquisizioni e le aggregazioni improntate all’efficienza e alla competitività su scala globale. Questi benefici vengono dissipati ogniqualvolta prevale la frammentazione inefficiente in tanti piccoli mercati nazionali e la difesa dell’orticello di influenza della politica locale. Il caso di Alitalia è emblematico. Non serve protezionismo, ma buona analisi economica. Va invece messa su un altro piano la giustificata prudenza di chi vuole vederci chiaro sulla vendita di tecnologie militari. Invece di starnazzare in difesa di una tanto generica quanto illusoria “italianità del know-how”, andrebbero seriamente sorvegliati gli intenti di Paesi extra-europei che utilizzano la tecnologia come strumento politico, o peggio come arma impropria per influenzare popoli e governi occidentali. Ma stranamente vedo che sono in pochi ad attivarsi per questo.

Quali Paesi utilizzano la tecnologia come strumento di influenza politica?

I soliti sospetti sono Russia e Cina. La prima attraverso l’uso talvolta spregiudicato di hacking e di interferenze nei media e nei processi politici democratici occidentali. La seconda per strategie industriali, anche basate sull’offerta di tecnologie a basso costo, che puntano a presidiare snodi vitali delle infrastrutture di comunicazione, di logistica e di sicurezza dell’Occidente. Il problema non è solo italiano naturalmente, per questo merita la dovuta attenzione il regolamento per la protezione degli investimenti “predatori” di Paesi extra-Ue proposto dalla Commissione di Bruxelles. Non bisogna certo fare di tutta l’erba un fascio, ma quando parliamo di Russia e Cina ci riferiamo a Paesi con i quali non sempre si gioca ad armi pari, perché in campo ci sono aziende legate a doppio filo alla leadership politica. Inoltre non c’è adeguata reciprocità in molti ambiti e questo rende più pericolosa la presenza di aziende cinesi o russe in settori particolarmente strategici.

Diversi commentatori hanno criticato su Formiche.net la posizione preferenziale acquisita dalla compagnia di telecomunicazioni cinese Huawei nel settore 5G, la futura tecnologia per le comunicazioni mobile (che è anche una delle ragioni che animano lo scontro globale tra Washington e Pechino).

Il 5G mi pare un esempio molto calzante di ciò che andrebbe salvaguardato in modo particolare, e un ulteriore esempio di occasione perduta da parte del Governo italiano. Si tratta di una tecnologia fondamentale, sulla quale transiteranno informazioni rilevanti e che abiliterà applicazioni in settori sensibili come sanità, energia, trasporti, eccetera. Su questo tema, sia il precedente governo sia l’attuale, seppur in forme diverse, hanno disegnato l’asta per le frequenze come strumento ricattatorio per fare cassa, “estorcendo” miliardi alle telco e così spiazzandone gli investimenti in infrastrutture produttive. Avrebbe avuto più senso assegnare le frequenze a chi avesse presentato i migliori piani di investimento, magari richiedendo esplicitamente l’utilizzo delle migliori tecnologie occidentali, al fine di garantire la futura sicurezza di questa infrastruttura strategica. Questo avrebbe consentito alle imprese di non drenare risorse a causa del taglieggiamento fiscale del Governo e quindi di non dover necessariamente cercare di risparmiare sui costi di infrastruttura utilizzando componentistica orientale a basso costo. Inoltre, avrebbe permesso allo Stato di risparmiare costi e retorica politica in controlli aggiuntivi su scelte tecnologiche fatte da privati che, alla lunga, potrebbero rivelarsi pericolose per la sicurezza nazionale.

Gli Stati Uniti e molti Paesi occidentali hanno adottato una strategia ancora più netta, bandendo di fatto alcune compagnie, prevalentemente asiatiche.

Washington ha preteso, dal mio punto di vista non senza buone ragioni, di poter accedere a tutte le informazioni sulla filiera delle tecnologie di rete, chiedendo architetture verificabili, così da poter essere sottoposte allo scrutinio delle istituzioni deputate alla sicurezza. E ha bandito chi non assicurava questi requisiti. Pur con opportuni distinguo, necessari quando sono in gioco interessi geopolitici, credo che la strada da seguire da parte dell’UE, e quindi anche dell’Italia, sul 5G come su altre fondamentali tecnologie ICT, debba tener conto di quanto applicato in Usa: investimenti privati, trasparenza e neutralità tecnologica e adeguata governance pubblica sulla sicurezza.

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