Ogni possibile margine di mediazione tra l’Italia e la Commissione europea si sta consumando. Se già non si è consumato. Vedremo meglio al termine del Consiglio dei ministri di stasera. Quello che doveva essere, almeno finora, un confronto sul piano tecnico, con il trascorrere delle ore, si è, invece, trasformato in uno scontro politico, senza esclusioni di colpi. Qualche giorno fa il ministro Tria, si era incontrato con Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo, l’organismo che riunisce i ministri dell’economia dei Paesi della zona euro, giunto a Roma se non con un ramoscello d’ulivo, almeno con l’idea di dare un segnale di distensione. Nel corso della conversazione aveva cercato di fare osservare che, per evitare la procedura d’infrazione dell’Unione Europea, sarebbe stata necessaria “una manovra di restrizione fiscale violentissima.” Tornare ad un deficit dello 0,8 per cento, “per una economia in forte rallentamento sarebbe stato un suicidio”. Obiettivo che la stessa Commissione non avrebbe condiviso. Tant’è che si era convenuto su un deficit maggiore. Che poi la “manovra del popolo” non ha ritenuto negoziabile.
Discorso “franco”, come si dice nel linguaggio diplomatico, ma argomentato. Ci voleva, allora, il carico da undici da parte di Luigi Di Maio? Era proprio indispensabile ribadire, a distanza di qualche giorno: “Noi stiamo cercando di invertire la rotta prima possibile. Condivido pienamente quello che ha detto il ministro Tria, che l’unico modo per rispettare tutti i parametri europei è fare una manovra suicida che poi porta alla recessione”. Nella situazione di stress che caratterizza i rapporti intereuropei è stata solo benzina sul fuoco. Che ha definitivamente messo in ombre quegli elementi di razionalità che dovrebbero fondare i rapporti internazionali. Se è vero, infatti, che l’Italia ha bisogno di un’Europa, seppure diversa. Questa proposizione è dialetticamente reversibile. La stessa Europa non può fare a meno dell’Italia. E non solo per il suo peso specifico sull’economia dell’Eurozona. Quell’essere la seconda potenza industriale e rappresentarne una parte considerevole. Ma per quei mille motivi che ne caratterizzano la storia più recente. Da questo punto di vista l’Italia non è la Grecia e non è nemmeno la Gran Bretagna: sempre a metà strada tra una prospettiva atlantica ed una continentale.
Ma c’è di più. Basti guardare alle prospettive più immediate, che sono quelle di un rallentamento generalizzato, come indicano tutte le previsioni internazionali. L’Europa, con in testa la stessa Germania, non sembra essere destinata ad un futuro radioso. Almeno nell’immediato. La congiuntura si fa più difficile e gli strumenti per contrastarla sono più ardui da maneggiare. La politica monetaria, in questi ultimi anni, è stata uno dei pochi driver dello sviluppo, grazie al bazooka di Mario Draghi ed il suo Quantitative easing. Ha fatto un piccolo miracolo, nonostante gli ostacoli che sono stati frapposti lungo il suo cammino e salvato l’euro. Ma oggi quelle potenzialità sono, in larga misura, congelate. Anzi quella cassetta degli attrezzi dovrà essere riposta per tornare ad una normalità, che tale, tuttavia, non rischia di essere.
Se non ci si fa prendere dalle fregole delle rispettive polemiche, si può facilmente intuire che le cose che uniscono sono maggiori di quelle che dividono. Di fronte al rischio di un rallentamento globale qual è la parte da giocare nella partita? Secondo le ultime previsioni della stessa Commissione europea, l’Eurozona avrà, nei prossimi anni, un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che sfiora il 3,5 per cento del Pil. Un accumulo di risparmio che non trova investimenti all’interno dei suoi confini, ma è semplicemente ceduto all’estero. Chi dovrebbe allora contribuire al rilancio dell’economia globale? Gli Stati Uniti, forse, che hanno un deficit di segno opposto (intorno al 2,5 per cento del Pil)? Le economie emergenti, la cui crisi sta deprimendo la crescita complessiva e lo sviluppo degli scambi internazionali? Il problema dello sviluppo non è solo un problema italiano. È soprattutto un problema europeo: da troppi anni soffocato da un eccesso di “rigore” e da comportamenti che avranno pure una loro radice storica – la crisi della repubblica di Weimar – ma che andrebbero da tempo superati.
Questo deve essere il contributo italiano al fine di sprovincializzare i discorsi finora sentiti. L’Europa deve avere il coraggio di una visione che non si restringa all’interno dei propri confini interni. Quando non si tratti di un puro e semplice nazionalismo finanziario, come avviene in Germania. Deve guardare ai grandi equilibri globali di cui fa parte. Ed essere consapevole del proprio ruolo, se non vuole scomparire nella morsa dei suoi possibili assedianti: l’America di Trump da un lato, la Russia di Putin dall’altro. Ma per essere credibile deve fare pulizia in casa propria. Smetterla di comportarsi come un modesto ragioniere e puntare su una politica economica che valorizzi le risorse di cui, da anni, fa un uso scriteriato. Con un costrutto, per altro limitato, visto che quei forti attivi valutari fanno crescere il valore dell’euro nei confronti delle altre monete (dollaro, yen e renminbi), danneggiando le proprie esportazioni. Puro autolesionismo.
Finanza allegra, allora? Tutt’altro. Le critiche nei confronti del governo italiano sono giustificate, ma non perché il deficit di bilancio sarà pari al 2,4 per cento, ma a causa del limitato contributo della politica, che è sottesa a quella cifra, allo sviluppo. Non è necessario infierire ulteriormente su un’ipotesi di reddito di cittadinanza, che risulta essere più o meno equivalente, allo stipendio di un giovane al suo primo impiego. Se sono vere le cifre riportate da Vincenzo Boccia: “In Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30 al primo impiego si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al nord (820 per i non laureati) e 740 al sud (700 per i non laureati). È evidente l’effetto spiazzamento di un reddito garantito a 780 euro.” Gli si può forse dar torto? Ed allora non possiamo che far nostre le parole del Cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana: “Se si sbagliano i conti non c’è una banca di riserva che ci salverà: i danni contribuiscono a far defluire i nostri capitali verso altri Paesi e colpiscono ancora una volta e soprattutto le famiglie, i piccoli risparmiatori e chi fa impresa”. Monito che vale per l’Italia, ma su cui la stessa Europa dovrebbe, finalmente, riflettere.