I risultati delle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti dicono che il Partito Democratico ha ottenuto un’ampia maggioranza alla Camera, mentre i repubblicani hanno consolidato l’esile vantaggio che avevano in Senato. Questo significa che il presidente Donal Trump dovrà governare, sebbene il maggior potere di voto alla camera alta, senza il controllo nell’assisse dei deputati, cambiando l’equilibrio che aveva trovato al Congresso nel momento della sua elezione.
La maggioranza democratica alla Camera apre a scenari ostruzionistici contro l’azione amministrativa di Trump, cercheranno di far passare le proprie leggi, indirizzeranno il lavoro delle Commissioni (perché ne prenderanno il controllo), fino a lanciarsi su possibilità affascinanti quanto remote e complesse come l’avvio del meccanismo di impeachment, procedura politica che parte proprio dalla proposta a maggioranza della Camera — è una possibilità molto lontana al momento, quasi impossibile, che si legherebbe al cosiddetto Russiagate, l’inchiesta sulle interferenze russe alle presidenziali, sull’eventuale collusione con il team di Trump e sulle eventuali ostruzioni alla giustizia (come da prassi americana, il procuratore speciale incaricato di seguire l’indagine, Robert Mueller, ha evitato passaggi pubblici in queste ultime settimane elettorali, ma i media statunitensi hanno scritto che sono pronti sostanziali sviluppi). Quel che è certo, visto il clima di divisione che c’è negli Stati Uniti, sia tra i cittadini che all’interno del Congresso, è che per Trump sarà molto più complicato far passare una legge. I legislatori di Camera e Senato devono infatti votare lo stesso testo per ogni legge, e questo significa che per farlo fare il presidente dovrà trattare con i democratici ed ottenere da loro il via libera tra i deputati — che per il momento hanno un umore generalmente anti-trumpiano.
Nel rinnovo completo della Camera, i democratici andranno con tutta probabilità conquistato 230 seggi, rispetto ai 193 che controllavano finora. I repubblicani perdono la maggioranza (235) e scenderanno a 200 seggi — per i risultati definitivi c’è comunque da attendere un po’. Osservando i risultati nei collegi, si legge che i candidati democratici sono riusciti a vincere le battaglie elettorali anche in alcune zone dove nel 2016 Trump aveva sbancato. In via definitiva, i Dem dovrebbero aver ottenuto un 8 per cento in più di consenso — dato completamente in linea con i sondaggi, che da tempo prevedevano questo scenario diviso alle camere (la sconfitta dei repubblicani alla Camera è uno scenario classico: in tutte le ultime quattro elezioni di Midterm almeno una camera è passata da un partito all’altro).
Secondo i primi dati sui votanti, circa il 52 per cento del corpo elettorale che s’è recato alle urne era composto da donne. Questo anche perché molte candidate Dem erano donne; nella storia americana, mai così tanti seggi della Camera — 100 in totale — erano stati occupati da donne. La mobilitazione democratica ha puntato anche su questo, nell’era del MeToo (il movimento che si batte per la denuncia degli abusi): è stata eletta la deputata più giovane di sempre, Alexandria Ocasio-Cortez a New York, e la prima musulmana, Rashida Tlaib, in Michigan. E i dati dicono che la maggioranza delle donne arrivate ai seggi hanno votato per i Dem, un venti per cento in più che alle scorse elezioni.
Al Senato i repubblicani invece hanno ottenuto tre seggi di maggioranza in più. Si votava per rinnovare un terzo dei seggi, non per intero come alla Camera, e in diversi Stati storicamente conservatori. I senatori democratici in tre occasioni non sono riusciti a difendersi, ma erano stati dove la maggioranza politica tra gli elettori è piuttosto cambiata con Trump: Missouri, Indiana e North Dakota. Trump ha già parlato di un successo “tremendous” (che più o meno significa incredibile ed è una scelta semantica forse non casuale: tremendous è l’aggettivo che ha contrassegnato i primi mesi di presidenza).
Nell’election day del 6 novembre erano comprese anche votazioni a livello locale: governatori, membri delle Corti Supreme statali, un referendum sulla mariujana in Michigan (che ha ottenuto il “sì”). Florida, Georgia e Ohio, sono gli stati dove hanno vinto i candidati dei Repubblicani per il ruolo di governatore — lì i Rep già governavano. Invece in Illinois, Kansas, Maine, New Mexico e Michigan, candidati democratici hanno scalzato i loro rivali (in Texas, il Democratico Beto O’Rourke non ce l’ha fatta a vincere il seggio al Senato: era una battaglia molto difficile, in uno stato molto conservatore, contro un candidato molto famoso come Ted Cruz, ma O’Rourke s’è confermato una stella nascente tra i democratici).
Come sempre succede, le elezioni di Midterm sono una sorta di referendum sul presidente: anche in questo caso, stando agli exit poll, oltre due terzi dell’elettorato le ha considerate tali. Trump è uscito con un risultato non del tutto perdente, ha evitato di essere travolto dalla cosiddetta Blue Wave (l’onda di mobilitazione dei democratici, che hanno come coloro che li contraddistingue il blu), ha retto bene il colpo e ha dimostrato di avere un’assoluta empatia con almeno metà dell’elettorato americano.
Quello delle Midterm è un risultato da proiettare nel futuro: il consolidamento al Senato non basterà per rendere più fluida l’azione di governo della Casa Bianca, che soffrirà senza il controllo della Camera. Da oggi parte ufficialmente la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, in un’America che dopo i primi due anni di presidenza non ha scomunicato totalmente Trump come speravano dai Dem.