Si possono non condividere molte cose di ciò che Calenda spesso e volentieri diffonde via twitter, facebook o durante le sue interviste. Non condivio, per esempio, la sua visione circa il metodo con cui dovremmo, come partiti progressisti, reagire alla situazione attuale. Patti repubblicani o altro, sono per me una scommessa inutile. Non funzionano e non potranno funzionare. Come non funzionano e non possono funzionare approcci elitaristi alla politica. La questione della famosa cena da fare tra big che tanto ha fatto discutere, non era solo gossip. Per me esprimeva un serio problema di metodo e di comprensione del momento.
Ma veniamo al libro. Si tratta certamente di un qualche cosa di simile a un manifesto politico. Non è un testo accademico o scientifico, malgrado una importante presenza di fonti statistiche e riferimenti bibliografici. Ma le affermazioni sono perentorie, a volte emerge una sorta di determinismo. Questa sensazione mi ha attraversato durante tutta la lettura: un tentativo, onorevole, di semplificare il complesso, che però non sempre ha funzionato.
A Calenda riconosco una grande onestà intellettuale, ma anche tanta ambizione. Questo libro, che mette insieme esperienza personale e professionale – ed è l’elemento che dà un valore aggiunto a questo contributo – con una riflessione più teorico-filosofica sul significato del liberalismo, della democrazia e dei ruoli del mercato e dello Stato, oggi, non ha solo la pretesa, malgrado non sia esplicitato, di affrontate le cause prime dell’attuale incertezza politico-sociale, di descriverle e analizzarle, ma anche di proporre delle soluzioni molto concrete. Che, come già detto, sono però presentate con un certo grado di determinismo ed un ottimismo forse eccessivo. C’è una eccessiva convinzione che le cose proposte siano anche proprio quelle giuste.
La cosa che più di tutte mi ha colpito, e sorpreso, è la sua forte, chiara e molto ben argomentata critica al capitalismo e al sistema delle democrazie liberali occidentali. Così come la critica alle elite progressiste o liberal-progressiste, come le definisce l’autore. Prendiamo questo passaggio:
“Ebbri o spiazzati per la sconfitta del comunismo, a seconda della provenienza ideologica, hanno perso il senso del loro compito [in riferimento alle classi dirigenti]. E il paradosso è che la politica è diventata più ideologica proprio quando sembravano morte le ideologie, perché ha assunto dalla teoria economica un pensiero diventato rapidamente dogma. La ricerca della rappresentanza è stata sostituita dalla retorica della competenza. La tecnica ha sostituito il pensiero politico e poi la politica stessa. La rinuncia a una riflessione originale, sviluppata grazie al rapporto con la societ e con il presente, piuttosto che importata dall’esterno, ha logorato e poi rotto la relazione di fiducia con i cittadini.” (p.11)
Non avrei potuto esprimere meglio questo pensiero. Condivido in pieno la critica profonda e ragionata di Calenda a questo sistema di potere. Ormai incancrenito. E condivido un ulteriore passaggio, quello in cui afferma che “la battaglia per la democrazia liberale è iniziata, e i progressisti la stanno perdendo per mancanza di visione, progetti ed iniziativa politica.” (p.13). Si tratta di una tendenza, un rischio per meglio dire, che Max Weber, già nel 1919, con il suo famosissimo saggio sulla “politica come professione” indicava. Il peggior peccato del politico è la vanità, perché corrompe la capacità di visione e di iniziativa. Perché impedisce di mettere in relazione l’etica della responsabilità e l’etica dei principi. Due forme di etica che il buon politico deve possedere e bilanciare. Con buona pace di tante e di tanti, ad oggi, di leader che rispondano a questa descrizione non ce ne sono. O per lo meno, non si vedono.
Un altro aspetto che ho molto apprezzato nella narrazione di Calenda è l’analisi critica, molto ben fatta, di ciò che è realmente accaduto all’indomani della caduta del muro di Berlino: l’illusione che questa vittoria fosse definitiva e destinata solo a un’espansione progressiva piena di successi, era appunto solo un’illusione.
Lui parla degli errori della globalizzazione, io parlo, piuttosto dei fallimenti di un sistema e dell’ultima grande ideologia: quella capitalistica o liberale. Nessuno può contestare il dato di fatto per cui la ricchezza sia aumentata pressoché ovunque. Ma nessuno può, allo stesso tempo, mettere in discussione il fatto che contestualmente sono esplose le disugugalianze non solo di reddito, ma anche di opportunità, di educazione, di aspettative e via dicendo. Viviamo nel tempo dell’opulenza e dello scarto continuo, per usare le parole di Bauman, e dell’indifferenza. La Politica ha ceduto terreno all’economia in modo indiscriminato. E leggere questa critica da parte di chi, almeno nell’immaginario comune, è espressione proprio di quell’elite economica colpisce. Positivamente.
Calenda nella sua analisi parla, inoltre, di una questione appunto di metodo, che condivido in toto. Sono anni, ormai, che sentiamo ripetere il mantra del “non c’è alternativa”. E questa cosa mi ha sempre urtato profondamente. Lo ho detto in diverse occasioni, con il PD e con la SPD, e non solo, che in Politica, che è lo spazio per possibile, questa risposta non ha senso. Quando un’alternativa non c’è, la Politica, la costruisce, la propone, la trova. Non c’è nulla di inevitabile, ad eccezione della morte. Fatto naturale a cui ciascuno di noi, ahimé, è destinato. Per il resto, l’inevitabilità non ha fatto altro che indebolire la capacità argomentativa dei politici e dunque ha indebolito la politica stessa. Questo ulteriore passaggio nel testo mi ha trovato molto d’accordo e mi è sembrato molto chiaro e convincente: “riannodare un rapporto profondo ed emparico di rappresentanza con la società attraverso un pensiero nuovo che abbia al centro l’uomo, le sue passioni e le sue inquietudini, piuttosto che la tecnica, è l’unica strada perseguibile per sconfiggere i populismi. Non esistono scorciatoie.” (p.55).
Certo: ci sono prospettive diverse. Calenda parla di un umanesmo che resta nel solco del perimetro liberale. Per me che sono socialdemocratico, questa concezione sta parecchio stretta. Ma mi sembra che lo sforzo di Calenda di conciliare liberalismo e dunque la centralità dell’individuo e della sua dimensione, con l’aspetto più comunitaristico, tipico del socialismo, segua uno sforzo già seguito da altri in passato e che è importante. E che sia una buona cosa per la salute della nostra democrazia. Questo passaggio mi ha colpito perché, mesi fa, ho presieduto una commissione di lavoro in seno all’Assemblea del PD Estero – dal nome “Partiti Progressisti Globali” – e questa discussione è stata fatta anche da noi. Nel nostro documento conclusivo, consegnato a fine settembre al Partito Nazionale, scrivevamo:
“ Un progressismo di sinistra dovrebbe quindi avere alcune caratteristiche a nostro avviso che tengano insieme la complessità del mondo sociale contemporaneo, le esigenze delle persone e i loro diritti. Pensiamo che debba essere posta attenzione in egual misura all’empowerment individuale, che mette gli individui nella condizione di “potercela fare” e che si realizza eliminando le diseguaglianze in partenza per esempio agendo sui differenziali educativi dovuti all’appartenenza sociale delle famiglie di origine, e l’interesse collettivo, che si realizza nella relazione tra le unità individuali siano esse economiche – come le imprese; o sociali, come i gruppi di interesse e i singoli individui, e la comunità di riferimento. Si tratta di due tendenze solo apparentemente opposte e dalla loro relazione emerge il bene comune, da tutelare e sviluppare. Nel progressismo di sinistra, quindi, il ruolo dello Stato è importante. Deve essere presente, intervenire per sanare le disuguaglianze attraverso un’azione di controllo e regolamentazione reale. Ma non è solo il ruolo di “controllore”, che nell’immaginario generale ha una connotazione essenzialmente negativa, quanto piuttosto anche, nelle parole dell’economista Mariana Mazzuccato “innovatore” e “imprenditore”. E certamente evitando sprechi e malfunzionamenti: quindi, “efficiente”.”
Calenda, che è critico con la divisione classica tra “destra” e “sinistra”, si limita infatti, e questa per me è una cosa non positiva, alla definizione o discussione del concetto di progressismo. Che poi però si riconduce sempre e solo al liberalismo. Noi, come forza che nasce in senso alla sinistra, non dobbiamo solo porci l’obiettivo di cosa sia il progressismo, ma quale sia il progressismo per la sinistra. Perché, come lui stesso mette più volte in evidenza, la genuflessione delle classi dirigenti anche della sinistra socialdemocratica in Europa, da Blair a Schröder, e con 15 anni di ritardo, di Renzi, per altro – ed è una mia opinione – in modo assai peggiore dei precedenti, ai dogmi del mercato libero e del liberismo, ha prodotto solo problemi. La confusione ideologica che ne è derivata ha prodotto lo scollamento tra elettrice ed elettori, e partiti della sinistra in Italia come altrove. Per questo, come ho più volte osservato e scritto, serve radicalità. Che va intesa come nettezza di posizioni: distinguerci dagli altri. Anche il progressismo inteso da Macron è per me problematico sotto numerosi punti di vista. E anche su questo c’è bisogno di confrontarsi, nella nostra comunità politica, che è il PD.
Più problematica è la questione della migrazione da un lato, che nella descrizione di Calenda, ricalca un po’ l’approccio securitario di Minniti. Approccio che ho fortemente criticato e che ha rappresentato per me il cedimento culturale alla destra identitaria. La percezione delle persone non può essere snobbata. La paura è cosa seria. Lo dice bene Calenda. Ma la securitizzazione dei confini non può che accrescere il senso di paura, poiché 1) legittima la paura stessa – se la reazione dello Stato è più controlli, vuol dire che un pericolo esiste, allora la paura è legittimata; 2) depotenzia la narrazione politica e l’argomentazione – contro la paura la ragione non ha possibilità di vittoria, si tratta di emozioni potenti che non possono essere contenute facilmente. L’unica via percorribile non è la chiusura e la creazione di nuovi sistemi di controllo e difesa, ma elaborare, proporre e realizzare un vero sistema di accoglienza e integrazione. Il PD, come espressione del progressismo (di sinistra) in Italia su questo ha ampiamente fallito e sono certo si sia giocato ampie fette di consenso. Una discussione che trattasse i temi di sicurezza, integrazione e migrazioni nel partito non è mai stata fatta, colpevolmente. Queste sono parole che ci appartengono e che abbiamo ceduto alle destre.
Più delicato il discorso sulla “gestazione per altri”. Non mi piace che venga usato il concetto “utero in affitto”. Questa economicizzazione delle questioni sminuisce il senso profondo ed etico del tema. Calenda su questo resta nell’ambito dei conservatori. Il modello liberale canadese, per esempio, mostra che questo tema può essere affrontato serenamente, al di là di preconcetti e stereotipi. Nel libro non avrei toccato la questione, perché così è stato fatto in modo troppo banale. E controverso.
Infine, due parole sul progetto del Partito Democratico. Come Calenda, sostengo anche io che il PD oggi non sembra essere capace di proporre alcunché. C’è una fazione di tifosi, che vorrebbero la terza ressurezione di Matteo Renzi, e che vive e fa politica solo ed esclusivamente in funzione del leader. Per me, questo genere di partecipazione politica è deleteria perché non è partecipazione ma fideismo. E in un partito democratico, in una comunità, non dovrebbe avere spazio. Le tifoserie dovrebbero restare negli stadi, non nei partiti ed i credenti, nelle chiese. Calenda ha ragione anche quando dice che manca l’elaborazione politica. Così come manca il coraggio. Troppo spesso, e questa è un’esperienza diretta che ho avuto in questi ultimi 5 anni nell’Assemblea Nazionale del PD, ogni proposta di discussione è bollata come voglia di tirarla per le lunghe. Il confronto è vissuto come un peso e non come un’occasione di crescita reciproca e di miglioramento delle proposte. Capita così che vengano fatte di corsa proposte anche importanti, non ben meditate e che vengono fatte passare a colpi di maggioranza. Prive di ogni formula di vero consenso e partecipazione, ma che servono a questo o a quella per dire: guardate, ho voluto questo, lo ho ottenuto! Sono forte. Invece, siete patetici.
E aggiungo, il PD oggi è al bivio. O si libera da questi intrecci di interessi solo personali e di confusione ideologica, o muore e forse allora, c’è da sperare che dalle sue ceneri rinasca qualche cosa di più decoroso. La credibilità è una merce rara, è ciò che sostiene quello che si può definire, il capitale morale. La Politica vive di questo. E allora concludo dicendo quello che ho detto in occasione dell’Assemblea degli Under 35 del Partito Democratico, CentoFiori, su invito di Brando Benifei:
Il PD deve ripartire se stesso e deve provare a rispondere a tre domande di base, per risolvere altrettanti problemi: quello dell’identità, quindi: chi siamo? E per me la prima risposta è: una forza socialdemocratica. Quello del contenuto: cosa vogliamo proporre? E per me occorre iniziare dalla questione sociale, che include il tema del lavoro, della precarietà, della formazione continua, del sostegno al reddito, dell’integrazione delle persone ad ogni livello. Infine, quello del metodo: come si vuole fare e con chi? Sì, i compagni di viaggio sono importanti e come si vogliono ottenere i risultati anche. Non come fatto negli ultimi anni di governo, aprendo sempre e solo conflitti, con l’arroganza di chi pretende di avere sempre e solo la ragione, mentre gli altri, sono o nemici o disadattati. E assieme alle forze socialdemocratiche europee.
La fiducia è ciò che dobbiamo ritornare a meritare. E per farlo serve essere credibili. Per essere credibili occorre essere coerenti e questo lo si fa, rispondendo alle tre domande che ho indicato e agendo in modo conseguente. Valori e principi ci sono: non perdiamoci. L’orizzonte è tutt’altro che selvaggio.
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il 20.11.2018 alle ore 18.00 discutiamo con Carlo Calenda del sul libro presso la Libreria Le Torri in Tor Bella Monaca.