Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Cosa insegna il voto Usa alla sinistra europea. Parla il direttore Maurizio Molinari

trump inf muro

È un quadro chiaroscurale quello che emerge dalle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Dopo due anni difficili per la categoria, i sondaggisti possono tirare un sospiro di sollievo. A differenza del novembre 2016, questa volta non ci sono stati clamorosi colpi di scena. La Camera ai democratici, il Senato ai repubblicani. Di fronte, due anni di presidenza Trump alle prese con un Congresso e un Paese divisi in due. Le urne americane aprono già la campagna per le presidenziali del 2020. E i democratici lanciano un messaggio alla sinistra europea: in politica nulla è irreversibile. Ne è convinto Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, per anni inviato negli Stati Uniti, che assieme a Formiche.net ha tracciato un bilancio delle midterms.

Cosa ha prevalso in queste midterms, la “blue wave” o il “red wall”?

Nessuno dei due. I democratici scalfiscono l’invincibilità di Trump conquistando la Camera, i repubblicani mantengono il Senato aumentando i seggi grazie agli elettori trumpiani. Entrambi i fronti escono rafforzati, con i democratici all’offensiva. Così inizia la seconda fase del primo mandato di Trump, che di fatto apre oggi le porte alla sfida per la Casa Bianca nel 2020.

Quanto ha pesato il fattore Trump sul voto?

Il voto è stato un referendum su Trump che ha visto un enorme afflusso di elettori e una grande partecipazione dei candidati che fino all’ultimo pensavano di vincere. L’identità di Trump si è trasformata in un elemento di mobilitazione e di vitalità della democrazia americana. Il modello Trump, che è quello del conflitto, è riuscito paradossalmente a rivitalizzare il fronte opposto, portando alle urne gli uni e gli altri.

Quali sono le vittorie più significative per l’elefantino e l’asinello?

Per i repubblicani il risultato più importante è stato conservare il seggio di Ted Cruz. Se la diga del Texas avesse ceduto sarebbe cambiata la mappa elettorale americana. Per i democratici i risultati più rilevanti sono nei distretti della Florida e del Wisconsin. Il primo, assieme alla Pennsylvania e l’Ohio, è uno dei tre Stati decisivi per qualsiasi presidente. Il Wisconsin è lo Stato tradizionalmente liberal dove Hillary Clinton nel 2016 sbagliò i calcoli, senza neanche andare a tenere un singolo comizio perché dava per scontata una vittoria. Questa volta i dem giocavano in recupero e hanno riconquistato i distretti persi.

Qual è lo stato di salute dei due partiti?

Quello dei repubblicani è difficile. I veri vincitori sono i candidati di Trump. Il campo rosso è sempre più di Trump e sempre meno del Gop. I repubblicani conservano il Senato, ma come partito si indeboliscono rispetto al loro leader. Quanto ai democratici, a mio avviso escono molto rafforzati per due motivi. Il primo è ovvio: hanno vinto alla Camera. Secondo poi, i candidati dell’area liberal estrema non sono passati. Questo aiuta i dem: una transizione del Partito democratico verso l’estrema sinistra giova solo a Trump.

Il Gop è lo stesso del novembre 2016?

In questi due anni è cambiata anzitutto l’identità dei repubblicani. Trump non ha impostato la campagna elettorale sull’economia, sebbene questa fosse un formidabile cavallo di battaglia. Così facendo avrebbe corteggiato i centristi, compresi i democratici scontenti. Ha invece deciso di puntare sui migranti per portare in massa tutti gli elettori trumpiani alle urne.

Il Partito democratico ora può davvero mettere i bastoni fra le ruote a Trump?

I democratici possono creare gravi danni all’amministrazione Trump dalla Camera. Non tanto per la procedura di impeachment, che può anche essere avviata dalla Camera ma con questi numeri al Senato non va da nessuna parte. Quel che possono fare invece, come ha notato Nancy Pelosi, è avviare in contemporanea nelle commissioni di inchiesta della Camera indagini sui comportamenti dell’amministrazione, rimproverando ad alti funzionari o ministri del gabinetto di aver violato la costituzione su temi come i diritti delle donne e dei migranti. Se dovesse iniziare quest’offensiva politica ma soprattutto legale i democratici obbligherebbero l’amministrazione a impegnare molte risorse umane e di tempo, con la possibilità di paralizzare il lavoro del governo federale.

C’è in queste elezioni una lezione per la sinistra alle prese col populismo europeo?

Faccio una premessa. In genere il sistema politico americano e quello europeo non sono assimilabili. La stagione del populismo paradossalmente li ha resi più simili. All’interno di questa situazione anomala, ci sono due messaggi da recepire. Il primo: anche se hai un leader populista, il populismo non è inevitabile, può essere contenuto e battuto, alla condizione che ci sia da parte di tutti i cittadini un consenso sul rispetto dello stato di diritto e della costituzione come valore comune. Dopo la vittoria di Trump nel 2016 tutti, a cominciare dallo stesso Trump, hanno espresso rispetto per il Rule of Law e per la Law of the Land. La chiave della democrazia americana è proprio questo comune rispetto per le istituzioni. Gli Stati Uniti sono una nazione di pionieri, costruita con le loro mani. Avere una base comune consente di rendere reversibile qualsiasi fenomeno in politica.

Eppure due anni fa molti temevano che Trump avrebbe violato lo stato di diritto…

Fu un dubbio che aleggiò all’indomani dell’elezione di Trump. Ci si chiedeva se fosse la fine dell’ordine liberale, ovvero della democrazia rappresentativa. La risposta fu negativa, perché le elezioni non avevano scalfito la condivisione dei principi costituzionali. In molti Stati europei mancano questi valori condivisi.

Il secondo messaggio per la sinistra?

La seconda lezione ha a che vedere con il duello populisti-antipopulisti. I democratici che escono dalle urne sono un partito molto più moderato rispetto a quello estremo che ha fatto la campagna elettorale. Hanno vinto i centristi, non l’estrema sinistra. Questo è un tipico tratto del sistema americano: quando vuoi battere un presidente non puoi gareggiare sul suo stesso terreno, devi crearne uno opposto. Dopo Clinton c’è stato Bush, dopo di lui Obama e infine Trump. Se il presidente punta a dividere l’America puntando tutto sul tema migranti non puoi vincere presentando candidati di estrema sinistra che giocano sulla stessa divisione, servono candidati che unificano.

×

Iscriviti alla newsletter