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Non c’è futuro. Salvini e Di Maio sono separati in casa

Di Maio salvini

Ormai è scontro su tutto. Sui termovalorizzatori si è giunti quasi alle mani. Con Matteo Salvini che ne invoca la presenza in ogni provincia italiana e Luigi Di Maio che, dismesso l’abito di cerimonia, dice, a brutto muso: “Non c’entrano una ceppa”. Plauso di Roberto Fico, che rincara la dose. Le tesi leghiste sono uno schiaffo per Napoli. Ma questo è solo il piccolo capitolo di una saga, che assume sempre più i caratteri di una farsa. Prima c’era stato lo scontro sul condono fiscale, quindi sulla prescrizione (contestuale o meno alla riforma del processo penale?) poi sulla Tav e più in generale sulle infrastrutture. Con il ministro Toninelli divenuto una sorta di pungiball.

Che succede, allora, nel sodalizio giallo-verde? Normale dialettica politica si potrebbe minimizzare. In passato non mancarono episodi altrettanto stupefacenti. La Dc, durante il governo Spadolini, (anni ‘80) che per difendere Nino Andreatta, accusa Rino Formica di essere “un commercialista esperto di fallimenti”. Ed il ministro delle finanze che risponde a tono: “Abbiamo una comare” il iinistro del Tesoro “per Lord dello Scacchiere”. Risultato finale: la caduta dello stesso governo. Cosa che dovrebbe, comunque, far riflettere.

In questo caso, tuttavia, le complicazioni sono, addirittura, maggiori. Sono le contraddizioni di un’intesa, motivata esclusivamente dallo stato di necessità, a venire sempre più alla luce. Un nuovo caso di “recipro assedio”, che rischia di risolversi nello stesso lasso di tempo del precedente. Allora toccò al quarto governo Andreotti, durato solo 373 giorni, e nato dall’abbraccio tra il Pci e la Dc di allora. Sotto l’usbergo del “compromesso storico”.

A differenza dell’intesa giallo-verde, le basi teoriche, su cui poggiava quell’iniziativa, alla fine degli anni ‘70, avevano un più solido fondamento. Enrico Berlinguer aveva davanti ai suoi occhi l’esperienza cilena, schiacciata dai carri armati di Augusto Pinochet. Riteneva, con qualche ragione, che i rapporti di forza tra Paesi sviluppati e sottosviluppati, dopo i forti aumenti del prezzo del petrolio, fossero cambiati in modo irreversibile. Facendo venir meno quella rendita di posizione di cui le metropoli occidentali avevano goduto negli anni precedenti. Tutto ciò richiedeva un salto di qualità nella strategia politica dei comunisti italiani ed una maggiore disponibilità al compromesso.

Sennonché l’incontro tra le masse cattoliche ed il movimento operaio, da sempre teorizzato da Palmiro Togliatti, non si esaurì nella contrapposizione ideologica. Ma nel conflitto pratico tra le opposte esigenze sentite dai militanti delle due diverse formazioni politiche. Nelle elezioni, che seguirono alla caduta del governo Andreotti, il Pci perse terreno. Fu quindi lo stesso Berlinguer a cancellare con un tratto di penna tutta la precedente strategia. A dimostrazione che quando la politica diventa ostaggio di minorities agissant, per riprendere un celebre concetto di Cohn-Bendit, ogni equilibrio diventa precario. E l’eventuale intesa si scioglie come neve al sole.

Siamo già a questo punto, nei rapporti tra Lega e 5 stelle? Forse il divorzio non è stato ancora consumato, ma certamente siamo nello schema dei separati in casa. Ciascun coniuge continua la propria vita, senza curarsi troppo dei vincoli contratti. Nei momenti necessari tornano a stare insieme, ma è sostanzialmente esclusa la progettazione di un futuro comune. Del resto, come sarebbe possibile? La situazione italiana, dal punto di vista economico-sociale, è troppo complicata per consentire ancora situazioni pasticciate.

L’illusione iniziale era quella che l’Europa divenisse, in qualche modo, complice. Che accettasse, cioè il finanziamento in deficit del “contratto di governo per il cambiamento”, per evitare un’Italexit dannosa per tutti. Ma così non è stato. Troppi gli errori commessi, anche a prescindere dagli insulti, ma soprattutto l’incapacità di prospettare una linea di politica economica adeguata. Capace “veramente” di coniugare sviluppo e riduzione del debito, al fine di far fronte agli squilibri macroeconomici (l’eccessivo surplus con l’estero) che le stesse regole europee sanzionano.

Venuta meno questa cornice unitaria, il sentimento identitario delle due tifoserie ha preso il sopravvento. Ma mentre al Nord la voglia del fare è prevalente. I 5 stelle sono una sommatoria di spinte contraddittorie. Dai vai movimenti “NO qualcosa”, ai ceti marginalizzati delle grandi periferie urbane, soprattutto meridionali, alla ricerca di un ristoro, seppure disperato. Ed ecco allora il motivo più evidente di una frattura. Con ogni probabilità destinata ad allargarsi, non appena sarà più evidente che le risorse ipotizzate per salvare le constituencies dei due principali azionisti non sono più (se mai lo fossero state) sufficienti.


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