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La nuova Lega di Salvini tra federalismo e antieuropeismo

Ci siamo abituati ormai, e in maniera pressoché continua, alla permanente campagna elettorale. La strada invero era già stata aperta dalla sinistra, divisa tra militanza di lotta e volontà di governo. Ma oggi le cose sono cambiate. Non soltanto chi siede a Palazzo Chigi lotta e governa nel medesimo tempo, ma l’agorà tradizionale, fatta di piazza e sindacati, è divenuta lo spazio virtuale dei selfie e del web.

Niente di tragico in questo. La realtà è realtà, e il processo di evoluzione mediatica non è in sé né un male né un bene, ma uno stadio nuovo della tecno democrazia globale. Restano però sul tappeto oggi gli stessi interrogativi e le stesse perplessità di ieri a proposito della perdita di confine, almeno in Italia, tra consenso e guida, o tra spettacolo e politica.

La Lega è sicuramente il coacervo dove confluisce l’inedita modalità nostrana di interpretare il politico attuale nel nostro mondo. Perciò, non soltanto il Carroccio ha cambiato statuto e si è trasformato in un nuovo partito holding, adatto alle altrettanto mutate finalità elastiche della mobilità transitoria del consenso, ma il suo leader Matteo Salvini è l’interprete perfetto dell’odierna fusione tra il desiderio ineluttabile dell’ordine e l’attiva necessità di cavalcare il caos permanente.

È in questo senso che va letta la decisione della Lega di scendere in piazza a Roma l’8 dicembre: raccogliere questa volta fisicamente in un luogo il nuovo popolo irrequieto, dando un corpo percettivo di massa all’assenso astratto e virtuale che è stato guadagnato. L’obiettivo principale è sancire in un sillogismo la premessa maggiore, prima gli italiani, accompagnandola ad una premessa minore, la centralità della leadership sovranista, in vista di un fine conclusivo, la contrapposizione con Bruxelles e le istituzioni comunitarie che si apprestano ad essere scardinate con le elezioni della prossima primavera.

Alla base di tutto sta un fatto: Salvini piace alla gente, il suo consenso cresce, e l’attuale assetto politico della maggioranza gialloverde è un vestito comodo a metà ma che sopravvive sia alle pastoie interne e sia alle pressioni esterne. Primariamente per Salvini in gioco c’è molto più il futuro del presente, la consapevolezza cioè che l’ascesa della nuova Lega è ancora all’inizio e avrà il suo vero incasso di suffragi alle prossime elezioni politiche nazionali, quando saranno. Le europee sono unicamente la verifica intermedia con cui si certificherà, nero su bianco, questa impennata e la si farà valere agli altri soggetti nell’avvenire. Per poter realizzare questo piano è chiaro che gli accenti sovranisti devono essere enfatizzati, la boria rivoluzionaria alimentata, anche a scapito delle acrobazie istituzionali che in materia di politica estera ed economica Giuseppe Conte e Govanni Tria dovranno orchestrare per tenere fermi i mercati e tenere a galla la barca del governo.

Ciò nondimeno, dietro tutta questa irrazionale logica primordiale sta un fondo di verità, senza il quale non si giustifica nulla del suo funzionamento. I due temi cari a Salvini sono i problemi reali del nostro presente: la gestione delle migrazioni e la necessità di ridefinire l’Unione Europea.

Perciò non hanno grande senso gli anatemi, anche provenienti da molto in alto, quando poi non si ha nessuna capacità di pensare ed offrire altra alternativa che non sia una pressappochista e prustiana ricerca del tempo perduto. In effetti, quando l’Europa politica era subita passivamente e i popoli si sorbivano il potere finanziario e politico altrui senza colpo ferire, si era in un periodo del recente passato che non ha, tutto sommato, niente da far rimpiangere a nessuno.

Sia per chi sostiene questa politica di destra e sia per chi la contrasta dovrebbe essere chiara una cosa assai semplice: né il ritorno alla sovranità nazionale, né la riforma delle istituzioni europee possono essere impedite, perché così vuole la storia contemporanea, fatta di Trump, Putin e Bolsonaro, non certo di Eisenhower, Churchill e De Gasperi. Se un’idea diversa la sinistra ce l’ha, dovrà farla capire in questo quadro di riferimento, e non in quello che non esiste più. Il perseverare fuori dalla storia, infatti, equivale a scomparire dalla storia.

L’immigrazione non può essere incontrollata e deve presumere come presupposto la coesione comunitaria di ogni singola nazione, con annesse e connesse le garanzie di sicurezza sociale dei cittadini e di salvaguardia delle identità omogenee delle culture e delle tradizioni esistenti. L’Unione Europea, se vuole sopravvivere, non può essere un uniforme e antidemocratico bureau che nessuno vuole, ma l’unità di popoli e Stati concreti che sono e si devono sentire tutti insieme e alla pari diversamente europei, restando ancorati alla prossimità dei piccoli spazi e alla prioritaria essenzialità, finora disconosciuta, dei sostanziali legami territoriali.

Il punto semmai è come l’8 dicembre la Lega presenterà questa radicale alternativa epocale che incarna oggi nel nostro Paese. Bisogna capire cioè se vuole andare verso il massimalismo rivoluzionario, verso il riformismo moderato, o verso qualcos’altro non ancora chiaramente rivelato. Se, infatti, Salvini saprà gestire in modo costruttivo tale mutazione politica di tipo comunitario e continentale che adesso concentra su di sé, allora potrebbe vincere negli anni la propria battaglia politica personale contro tutto e tutti. Altrimenti, prevarranno altre soluzioni, sia pure nel medesimo quadro di riferimento, e potremmo trovarci ad essere una nazione sovrana, una comunità omogenea, tuttavia povera, esclusa, isolata e senza più neanche quei pochi risparmi che ancora ci portiamo dietro.

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