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Nella biodiversità il futuro e la sostenibilità del sistema bancario

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Quale strada il sistema bancario dovrebbe seguire per essere al passo con i tempi e competitivo in un mercato più globale e concorrenziale? Cosa cambia con l’ingresso di nuovi soggetti soprattutto nel campo delle transazioni digitali per effetto dell’introduzione della Psd2 (Payment Service Directive 2) in materia di pagamenti elettronici? Il tema dell’evoluzione del sistema bancario è tornato d’attualità nel nostro Paese anche per effetto delle recenti prese di posizione di esponenti dell’esecutivo nel riconsiderare la recente riforma introdotta dal governo Renzi e per la sentenza del Consiglio di Stato che, alla fine di ottobre, ha rinviato alla Corte di Giustizia europea la decisione sulla legittimità della stessa “riforma” per la parte che riguarda le Banche Popolari.

Alla base di queste “riforme” – introdotte, singolarmente, solo in Italia – vi è il mainstream secondo cui il futuro delle banche deve rispecchiare una logica dimensionale, per cui per essere più competitive e più solide è necessario che siano più grandi. Gli sviluppi recenti della vicenda sembrano andare in controtendenza rispetto a questa logica e, dunque, vengono interpretati come il pericolo di ritorno al passato che non avrebbe più diritto di essere nell’attuale panorama bancario e finanziario. Ma è veramente così? Chi teme quello che viene definito “il ritorno al piccolo mondo antico” dimentica che il sistema bancario italiano, con l’introduzione del Testo Unico Bancario nel 1993, già è stato investito da una serie di trasformazioni profonde che ne hanno modificato profondamente la fisionomia. Negli ultimi 25 anni, infatti, il numero delle banche è sceso da 1.156 a 538. Solo per le Banche Popolari cooperative le operazioni di fusione e di acquisizione, compiute in questi anni, sono state poco più di 200, a conferma della risposta registrata in tutto il comparto creditizio.

Anche il richiamo sulla considerazione che il tentativo dell’attuale governo di evitare una colonizzazione del nostro sistema bancario sia anacronistico appare esso stesso anacronistico principalmente per due ordini di motivi. Primo perché non si capisce come mai tale circostanza debba essere vera per l’Italia e non per altri Paesi nei quali per le banche italiane è estremamente difficile, se non impossibile, mettere anche solo il naso. Secondo perché il processo di “colonizzazione” è già in essere o in corso con alcuni istituti completamente, o quasi, passati di proprietà a gruppi esteri.

Nelle Banche Popolari trasformate “coattivamente” in SpA, per fare un esempio che più ci riguarda, il peso dei fondi esteri è raddoppiato, passando dal 18 per cento del 2014, precedente alla riforma, al 36 del 2018. La critica secondo la quale il modello popolare-cooperativo o la banca piccola non siano in grado di reperire capitali sul mercato e non siano idonee, per questo, ad operare all’interno del nuovo framework regolamentare e ad essere soggetta alla Vigilanza unica della Banca Centrale Europee, è una critica che viene ripetuta come un “mantra” – forse come modalità di autoconvincimento – ma è una visione smentita, ancora una volta, dai fatti se si considera che dal 2000 fino a prima della “riforma”, le Popolari hanno compiuto operazioni di aumenti di capitale raccogliendo risorse aggiuntive per circa 24 miliardi di euro su 63 miliardi di euro complessivi raccolti dal sistema (circa il 38 percento), con il coefficiente Cet1 che, già a fine 2014, era considerevolmente aumentato e allineato stabilmente al di sopra del livello minimo previsto dalla nuova normativa europea. Il mercato investe se le banche sono efficienti.

È assolutamente vero. E le banche italiane hanno dimostrato di esserlo continuando a supportare il tessuto produttivo ed operando malgrado una regolamentazione che, nel frattempo, ha fissato parametri di misurazione del rischio che penalizzavano gli istituti di credito tradizionale favorendo quelli, del Nord Europa, che operano sui mercati finanziari e su quello dei derivati. Una distorsione corretta in parte negli ultimi stress test da cui proprio alcune banche tedesche, francesi ed inglesi sono uscite con valutazioni peggiorate rispetto al passato. Se poi andiamo ad analizzare il peso delle crisi bancarie sui conti pubblici dei singoli Stati le cose, per il nostro sistema bancario, stanno ancora meglio.

Lo conferma direttamente l’autorevolezza della Banca d’Italia secondo la quale “i salvataggi bancari incidono profondamente sulle finanze pubbliche di molti Paesi europei: alla fine del 2011 l’impatto sul Pil è pari a ben 48 punti percentuali in Irlanda, 11 in Germania, 7 in Olanda e Belgio; a 4 punti di Pil ammonta il prestito europeo chiesto a questo scopo dalla Spagna nel 2012. In Italia l’intervento pubblico sul sistema è minimo, con una quota pari ad appena lo 0,2 per cento del Pil”.

Sarebbe, dunque, il caso di ascoltare meno le sirene del mainstream e predisporsi a valutare i dati, a conoscere la storia, da quella più antica a quella più recente, delle banche italiane, del ruolo svolto e degli obiettivi raggiunti in termini di cambiamenti, innovazione, patrimonializzazione e sostegno all’economia reale. Si comprenderebbe, così, che proprio nel “piccolo mondo antico” vi sono le migliori possibilità di futuro e sostenibilità.



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