“Come vescovi non intendiamo stare alla finestra”: così il cardinal Bassetti nella prolusione all’assemblea generale della Cei della scorsa settimana. C’è da chiedersi cosa voglia dire una tale espressione, al di là dell’evidente eco “franceschiana”. Il cardinale ne ha spiegato il senso riconducendosi “a due principi che appartengono alla storia del movimento cattolico”: il “servizio al bene comune”, il cui testimone esemplare – secondo Bassetti – è stato l’economista e sociologo Giuseppe Toniolo, morto cento anni fa, e la “laicità della politica”, il cui rappresentante più efficace è stato – chiarisce – Alcide De Gasperi, il quale “seppe lottare per difendere la propria fede con grande pudore, facendo gli interessi dei cittadini, in piena e sofferta autonomia di pensiero, di parola e di azione”. Sarebbe stato utile, forse, ricordare contro chi De Gasperi tentò di far valere la sua autonomia.
Tra coloro con i quali il fondatore della Democrazia Cristiana si confrontò criticamente ci fu don Luigi Sturzo, fondatore a sua volta del Partito popolare. Reputo che il cardinal Bassetti non stesse pensando a lui. Del resto, nella sua prolusione, colpisce proprio il silenzio sul prete siciliano, ormai alla vigilia del centenario dell’inizio del Ppi e dell’appello “ai liberi e forti” del 18 gennaio 1919. Si potrebbe pensare che è meglio non chiamare in causa un prete quando si parla di laicità della politica. Ma così si dimostrerebbe di non sapere granché di politica e di laicità: la laicità della politica non sta solo per impegno “dei laici” in politica, ma per impegno politico “non clericale”, cioè non espletato per delega da parte dei vescovi. Sturzo lo spiegò in un suo memorabile discorso, tenuto a Caltagirone nel dicembre 1905, segnalando i limiti dell’esperienza rappresentata a cavallo tra Otto e Novecento dall’Opera dei Congressi. Il clericalismo è quell’atteggiamento autoreferenziale che travisa – nel pensiero e nell’azione di vescovi e preti, ma anche di certi laici (cattolici e non) – il servizio in carrierismo, inducendo a una grave confusione tra il “ministero” e i “dicasteri”.
Solo chi non ha mai letto neppure mezza pagina di Sturzo può presumere che la sua lezione non mantenga una straordinaria attualità: alcune sue previsioni e alcuni suoi moniti (come quello sul “riarmo morale”) suonano come se fossero detti oggi per la prima volta. Questo ci aiuta a immaginare il timbro inedito, persino inaudito, che dovettero avere all’epoca. Ma, soprattutto, ci rende consapevoli di un nostro madornale ritardo: se quelle cose, dette cento e più anni fa, valgono ancora, vuol dire che non s’è fatto quasi nulla di ciò che Sturzo suggeriva con limpida chiaroveggenza e penetrante lungimiranza, sia in campo sociale e politico, sia in ambito ecclesiale.
Sì, anche ecclesiale, giacché il magistero di don Sturzo ebbe anche molti risvolti spirituali e teologici: egli richiamava la Chiesa a una conversione pastorale, consistente nel superamento del clericalismo e nell’assunzione della modernità, che era da lui compresa non più come una minaccia, bensì come un deficit della Chiesa stessa. Secondo Sturzo, dopo l’Unità i cattolici resistettero all’offensiva dello Stato liberale con “un’opposizione negativa e passiva”, che si isolò nell’astensionismo politico (il non expedit), “senza assimilare la vita moderna nei suoi elementi di perenne civiltà e nella forza della sua realtà”. La rinuncia a ciò che di positivo comporta la modernità fece accumulare al cattolicesimo italiano ritardo e impreparazione rispetto alle urgenze del tempo presente. A suo parere, quel ritardo doveva essere recuperato con un’”azione positiva nella vita pubblica” e, perciò, con l’impegno politico, mettendo “a base delle lotte elettorali non una negazione o una reazione, non l’idea religiosa messa come insegna di lotte cittadine, non una o più persone dall’etichetta di cattolici autorizzati dalle benedizioni dell’autorità ecclesiastica locale, ma un programma, cioè un complesso di principi e di propositi”.
Anche papa Francesco afferma spesso cose simili. Non l’ha fatto, purtroppo, qui in Sicilia, durante la sua visita del 15 settembre scorso. A Piazza Armerina – diocesi in cui dal 1903 al 1941 fu vescovo il fratello di don Luigi, mons. Mario Sturzo – ha preferito catalogare i mali sociali che affliggono l’entroterra siciliano e ricordare ai preti di predicare brevemente. Probabilmente nessuno s’è preso la briga di fargli conoscere la vicenda dei fratelli Sturzo, che gli avrebbe dato lo spunto per distinguere non tanto tra un populismo buono (quello ecclesiale) e un populismo demagogico, bensì tra il popolarismo e il populismo (che è sempre cattivo, perché è strumentalizzazione del popolo). A Palermo, poi, ai giovani radunati al Politeama, ha parlato della necessità di rintracciare le radici della migliore cultura siciliana e anche tra queste il popolarismo sturziano sarebbe da ricollocare.
“Senza radici tutto è perduto”, ha detto il papa a Palermo. E pure il documento finale del Sinodo dei giovani si sofferma sull’importanza delle “radici culturali”: “Aiutare i giovani a riscoprire la ricchezza viva del passato è un vero atto d’amore nei loro confronti in vista della loro crescita e delle scelte che sono chiamati a fare”. È un compito formativo che molti adulti, in ambito ecclesiale oltre che politico, disattendono. Meno male che i giovani si arrangiano da soli. A un convegno, tenutosi a Caltanissetta venerdì scorso, sul municipalismo sturziano, con relatori del calibro di Antonetti, Malgeri, Giovagnoli, Pajno, Guccione, De Marco, Pennisi e altri, non c’erano preti e non c’erano vescovi, e nemmeno i sindaci del circondario: c’erano però gli studenti del Ranchibile di Palermo, del liceo nisseno Ruggero Settimo e del corso di laurea in Scienze della Formazione ospitato presso l’Associazione Casa Famiglia Rosetta. La speranza sono loro.