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Università, istruzioni per il cambiamento. L’analisi di Mario Panizza

Di Mario Panizza

I teatri, gli auditori, i musei prevedono la parte dell’accoglienza come una zona filtro in comune con la città. Il foyer del teatro è posto spesso a contatto diretto con la caffetteria e con lo spazio pubblico sulla strada. Gli ambienti per lo shopping nei musei sono un punto di incontro aperto, anche fuori orario. Perché non estendere questa condizione, presente in gran parte delle strutture pubbliche urbane, anche alle università?

Per quelle sedi non lontane dalle aree di transito e di interesse culturale e turistico, verrebbe naturale, e particolarmente utile, sia per attrarre futuri studenti che per rendere più diretto il rapporto con i cittadini. Oltre a fornire un concreto servizio alla città ne deriverebbe un miglioramento dell’immagine dell’università, purtroppo non sempre considerata generosa. A questo disegno rispondono bene quei modelli insediativi disseminati nei centri urbani che hanno recuperato nei tessuti consolidati l’edilizia preesistente storica, ma anche quella più recente, riconvertendola in struttura universitaria.

Questo modello di funzionamento sembra risolutivo, anche per garantire quell’obiettivo di terza missione che è ormai considerato parte integrante dei programmi accademici. Tuttavia non può essere automaticamente riproposto ovunque, perché non tutte le realtà urbane hanno le caratteristiche per accoglierlo e soprattutto perché molti centri universitari hanno consolidato modelli insediativi che non tollerano modifiche così profonde. Infatti una città studi o un campus hanno un altro tipo di economia e di risparmi nella gestione.

Quanto più l’università però intensifica il rapporto con l’ambiente esterno, tanto più la città è portata ad assecondare la condizione delle strutture di servizio. L’equilibrio si modifica costantemente, favorendo un livello sempre più avanzato di interscambio e di gestione complementare. I vantaggi sono però legati a trasformazioni talvolta repentine che devono essere socialmente controllate, perché non provochino cambi di assetto non voluti, rimediabili solo attraverso affannosi recuperi di strategia e opportuni adeguamenti edilizi. Compito degli atenei è pertanto quello di essere sensibili e accorti ai cambiamenti sia interni che esterni per valorizzare, possibilmente in anticipo, il potenziale del loro sviluppo. Il modello formativo, la spinta all’internazionalizzazione, la capacità ricettiva, le dinamiche sociali del quartiere: tutto deve contribuire a progettare l’offerta di formazione perché sia innovativa.

Questo adattamento alle nuove esigenze e domande, anche se definito, non deve però mai essere improvviso. Gli interventi di innovazione formativa devono essere graduali, così come i nuovi inserimenti edilizi devono seguire il criterio della discrezione e del rispetto di quell’equilibrio che il tempo ha formalizzato con la città e con i cittadini. Al contrario, l’abitudine a valutare l’impatto con la città si ferma quasi sempre a un approssimativo giudizio estetico e alla densità del traffico. Poco attenta è invece la ricaduta in termini di benessere complessivo, comprendendo in esso anche i risvolti di natura psicologica. Questi dipendono da una somma di fattori che solo la curiosità verso la struttura urbana riesce ad affinare. La stessa superficialità che, molto spesso, è rivolta alla comprensione dell’edificio, soffermandosi sulle sue dimensioni, ma non sulla sua reale efficienza e qualità, rimane immutata anche verso il tessuto urbano, trascurando il potenziale di benessere che esso può offrire.

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