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Oltre la trade war. Lo scontro Usa-Cina nel Pacifico

Il New York Times dedica un articolo a sei colonne (scritto da una delle firme di punta del giornale sui dossier esteri, Edward Wong) sulla dimensione geopolitica del confronto tra Stati Uniti e Cina. Le dispute commerciali sono da mesi al centro delle cronache, ma chi segue attentamente il procedere dello scontro globale tra Washington e Pechino, sa perfettamente che il commercio è il terreno di sfogo per una guerra al rallentatore ben più ampia, che passa per esempio (o soprattutto) per il dominio del Pacifico.

Ecco perché vediamo gli americani (e gli alleati di punta) transitare tra le acque contese del Mar Cinese per segnare la propria presenza su un territorio in cui la Cina vorrebbe imprimere la propria forza imperiale ed egemonica; oppure screzi attorno a Taiwan, con l’isola che i cinesi considerano una provincia ribelle, a cui invece nel corso degli ultimi due anni (ossia con l’amministrazione Trump che ha ingaggiato la Cina a tutto tondo) gli Stati Uniti si sono avvicinati – dettaglio, da esempio: quando i segretari di Stato e Tesoro hanno annunciato i nomi dei paesi esclusi temporaneamente dalle misure sanzionatorie secondarie sull’Iran, tra questi c’erano sia la Cina che Taiwan, entrambi individuati come “nazioni”, e la semantica conta in certi casi).

Il problema del Mar Cinese e dello Stretto di Taiwan è “irrisolvibile”, scrive Wong e questo è emerso chiaramente durante un incontro che il capo del dipartimento di Stato, Mike Pompeo, e quello del Pentagono, James Mattis, hanno avuto con le controparti cinesi: Pechino non intende arretrare di un millimetro dalla sua agenda. E questa settimana, il vice presidente americano, Mike Pence, è stato in viaggio per il Sudest Asiatico per rassicurare gli alleati che l’America controbilancerà la Cina nel complicato teatro del Pacifico.

Pence ha parlato dei lati negativi delle influenze cinesi nella regione – dove “non c’è spazio per imperi e aggressioni”, ha detto – anche al vertice dell’Asean di Singapore. Dall’inizio del mese, il Veep è diventato, dopo un discorso aggressivo quanto programmatico contro Pechino, il volto duro con cui l’amministrazione affronta il gigantesco dossier. Qualche giorno fa, l’Air Force Two in cui viaggiava il vicepresidente ha sorvolato le isole Spatrly, isolotti tra quelli contesi nel Mar Cinese Meridionale, in cui la Cina ha piazzato avamposti militari. Pence ha detto ai giornalisti a bordo dell’aereo che il passaggio rientrava tra le attività “Fonop”, che è il nome tecnico con cui gli americani definiscono i passaggi di navi da guerra all’interno delle acque di quelle terre contese – un’attività che è detestata da Pechino, che la considera una provocazione che viola la propria sovranità.

Tuttavia, voci maliziose dall’Asia sostengono che però per affrontare con maggiore convinzione le complicate faccende, da Washington doveva muoversi anche il presidente Donald Trump per prendere parte all’incontro Asean, o almeno a quello della Asia-Pacific Economic Cooperation, come ha fatto il suo omologo cinese e russo.

Il gioco di forza nel Pacifico – Asia-Pacifico e Indo-Pacifico, come regioni geografiche – arriva fino alle Saipan a Vanuatu, isole dell’Oceania su cui ditte cinesi stanno piazzando progetti infrastrutturali. E influenze: funzionari americani dicono al Nyt che potrebbero alla fine diventare avamposti beachheads per l’Esercito popolare di liberazione cinese, con l’Australia molto nervosa per queste penetrazioni cinesi e gli Stati Uniti che le vedono come un’altra sfida geopolitica nel Pacifico meridionale.

È anche una guerra di nervi, giocata attraverso parole inserite in spazi ben precisi in modo creare irritazione all’avversario. Giorni fa, Pompeo, a margine di quell’incontro con i cinesi avuto insieme a Mattis, ha esordito in conferenza stampa parlando dei rapporti americani con la “Taiwan democratica” ed esprimendo preoccupazione per le attività di influenza con cui la Cina sta cercando di fare terra bruciata attorno all’isola, pressando gli altri stati per farli allineare sulle proprio posizioni (per esempio: molte compagnie internazionali, sotto forcing di PEchino, non usano più la parola Taiwan su prenotazioni di voli o hotel, sostituita con la cinese Taipei).

Dire Taiwan democratica è una frecciata alla Cina. In risposta a Pompeo, da Pechino ha parlato il ministro della Difesa, Wei Fenghe, ed è già da notare che il governo cinese ha scelto il generale a capo delle forze armate per rispondere al capo della diplomazia americana. Wei ha usato le parole del giuramento alla fedeltà alla Stars&Stripes, con il passaggio “one Nation under God, indivisible” è ha detto: cosa cambia con Taiwan? Per noi, ha spiegato il generale, la Cina è una e “indivisibile” (la “One China” è la politica con cui Pechino rivendica sovranità su Taiwan) e niente cambia con quello che pensano sull’unità nazionale gli americani. Di più, ha detto il ministro cinese: servisse ce la riprenderemo con la forza.

Lo scontro retorico è anche sulla militarizzazione: gli americani accusano la Cina di costruire infrastrutture militari nelle isole del Mar Cinese, oltre che minacciare con le armi Taiwan, i cinesi rivendicano che quelle opere ingegneristiche sono nient’altro che a supporto di attrezzature civili che via via occuperanno le isole. Per Pechino sono piuttosto gli Stati Uniti a militarizzare la regione, intasandone le acque con navi da guerra: tempo fa doveva essere inviata una portaerei tra lo Stretto di Taiwan, ma Washington avrebbe scelto di non alzare troppo i toni del confronto, decidendo di inviare soltanto un incrociatore e un cacciatorpediniere. Ma l’America non molla, e rilancia coinvolgendo nelle attività militari su quelle rotte gli alleati migliori, come Gran Bretagna, Francia e Canada, nonché il Giappone.

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