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Usa fuori dall’Afghanistan? È una vecchia idea (politica) di Trump

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Nei giorni scorsi le forze armate statunitensi hanno ricevuto l’ordine di iniziare a pianificare il ritiro di circa la metà delle truppe schierate in Afghanistan. La notizia è iniziata a circolare sui media giovedì, partita dal Wall Street Journal che ha fatto il secondo scoop del genere in pochi giorni, dopo che quello riguardante il ritiro dalla Siria – il giornale della finanza americana, di proprietà di Rupert Murdoch, è diventato nel corso del tempo abbastanza amico dell’amministrazione Trump, che ricambia passando indiscrezioni potenti.

Ieri un funzionario della difesa americana ha confermato rapidamente la notizia anche a Barbara Starr, decana dei reporter dal Pentagono della Cnn, spiegando che la pianificazione del ritiro è in corso, ma che potrebbero volerci mesi perché si prevede di “ritirare quasi 7.000 soldati”. E via via i media americani sono stati riempiti da una fuga di “fonti anonime” che non vedevano l’ora di trovare una valvola di sfogo su un argomento abbastanza detestato dai soldati statunitensi.

La decisione, secondo quanto si scrive in Usa, sarebbe stata presa martedì, sulla scia di quella siriana, ed è stata una delle distanze tra le visioni del presidente e le necessità del Pentagono che hanno portato alle dimissioni del segretario alla Difesa, Jim Mattis – anche lui, come altri prima, non è però riuscito a riconsegnare il mandato nella mani del presidente, che lo ha anticipato con un tweet al fulmicotone in grado di mettere in imbarazzo l’interlocutore e di costruire attorno allo Studio Ovale lo stesso clima che c’era nello studio televisivo di The Apprentice.

Secondo quanto scrivono i media americani, il presidente Donald Trump avrebbe chiesto di avere i piani di ritiro pronti sul suo tavolo entro fine gennaio o inizio febbraio, per poterli annunciare durante il Discorso sullo stato dell’unione. La tempistica tradisce: più di valore strategico-tattico militare, la decisione ha un significato politico. Trump da sempre, fin dai tempi della campagna elettorale, ritiene questo genere di missioni troppo impegnative e coinvolgenti per l’America (una posizione che trova condivisioni anche altrove, per esempio in Italia).

I militari la vedono differentemente: il generale John Allen, ex comandante della Nato e delle forze statunitensi in Afghanistan, dice per esempio alla Cnn che diminuire il contingente in Afghanistan sarebbe un errore. “Tirandoci fuori adesso, solo l’annuncio creerebbe il caos nella strategia”, spiega il generale quattro stelle che adesso presiede la Brookings Institution, considerato il miglior think tank del mondo.

“Non ho raccomandato di lasciare l’Afghanistan perché, ancora una volta, a mio giudizio, lasciare l’Afghanistan non solo potrebbe creare instabilità nell’Asia meridionale, ma a mio avviso darebbe ai gruppi terroristici lo spazio in cui pianificare e condurre operazioni contro il popolo americano, la nostra patria e i nostri alleati “, ha detto due settimane fa, in un evento organizzato dal Washington PostJoseph Dunford, il capo delle forze armate americane: “E questo è davvero il problema che stiamo cercando di risolvere”.

La scarsa sincronia e condivisione di certe scelte della Casa Bianca con le posizioni dei militari, in un immagine: ieri, mentre Trump annunciava il ritiro sostanziale, il Pentagono ha pubblicato un report analitico su come migliorare la sicurezza e la stabilità in Afghanistan – ovviamente attraverso la presenza di personale statunitense sul terreno, da abbinare alla via diplomatico-negoziale con gli insorti (la situazione “è in stallo”, aveva detto lo scorso mese Dunford in una conferenza ad Halifax).

Attualmente gli Stati Uniti hanno circa 14mila soldati in Afghanistan, gran parte dei quali sono presenti sotto le insegne della missione Resolute Support della Nato con il compito di addestrare, consigliare e assistere le forze afghane. La creazione di forze di sicurezza locali è un aspetto fondamentale nell’ambito dello state building in Afghanistan, soprattutto in questo momento, con i ribelli jihadisti talebani che sono tornati a riconquistare territori e influenza nel paese.
La campagna afghana è stata attivata dopo l’attentato dell’11 settembre a New York, perché gli Stati Uniti avevano ottenuto informazioni sui collegamenti tra talebani e qaedisti (per lungo tempo, i jihadisti di al Qaeda hanno avuto protezione tra i miliziani afghani, e pakistani).  Quella in Afghanistan fu la prima applicazione dell’articolo 5 dell’alleanza, con gli alleati che reagirono contro il regime talebano secondo l’invocazione della difesa collegiale avanzata dagli Stati Uniti, che si definirono sotto attacco del terrorismo organizzato.
Il 2 ottobre del 2001 scattò la cosiddetta “clausola d’impegno”, e da lì gli americani e la Nato si impegnarono in una guerra dalla durata storica, ancora senza un risultato finale, e dagli ultimi anni con nuove criticità (una di queste: l’incunearsi all’interno della predicazione talebana, tra l’altro tornato fortissima, di sacche collegate allo Stato islamico). “Secondo i nostri comandanti militari e tutti quelli che conosco, l’idea è di ritirarci dall’Afghanistan con onore e farlo in base alle condizioni sul terreno – ha detto il senatore repubblicano Lindsey Graham, trumpiano, ma con idee più classiche di quelle del presidente su faccende di politica estera – “[…] basandomi sulla mia valutazione, in Afghanistan, se ci ritirassimo presto, apriremmo la strada per un secondo 9/11”.
Graham ha parlato anche di un’altra faccenda molto trumpiana: il presidente, annunciando il ritiro parziale, ha detto che sarebbe ora che gli altri facessero qualcosa di più in Afghanistan, ma il senatore ha fatto notare che dall’agosto del 2017, 5.600 afgani sono morti combattendo i talebani e l’Is, mentre soltanto diciotto americani – “Che Dio li benedica” – sono caduti in battaglia. In molte aree del paese sono impegnati inoltri contingenti di altri paesi Nato, tra questi l’Italia.
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