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La grandezza di Amos Oz, uno scrittore in chiaroscuro

Ogni volta che muore un grande scrittore contemporaneo, consacrato in vita dalla meritata fama e dagli onori di questo mondo, mi chiedo se oggi sia possibile sottrarsi a questo destino che condanna tutti, in primo luogo gli artisti, a vivere “pubblicamente”.

Se da un lato infatti l’autonomia della cultura dovrebbe essere un valore in sé e noi dovremmo giudicare un’opera tendenzialmente per il suo solo valore artistico, è pur vero che la vita pubblica di un autore, costituendo parte della sua personalità, si travasa senza sosta in quel che fa, dice, scrive. Questa contraddizione o tensione fra letteratura e vita, sempre presente, ma inevitabile nei nostri tempi, mi sembra sia stata risolta egregiamente da Amos Oz, il grande scrittore israeliano venuto a mancare ieri all’età di 79 anni.

Oz era impegnato politicamente a sinistra, la non sempre lucida in verità sinistra progressista israeliana, ma i suoi interventi pubblici hanno sempre avuto una nota di saggezza, moderazione, comprensione umana, che era all’un tempo la sua disposizione d’animo predominante (la Stimmung direbbero i tedeschi) e la cifra della sua personalità tutta intera. Tanto che il volumetto “Contro il fanatismo”, la sua prova saggistica che nasceva da tre conferenze tenute a Tubinga nel 2002, ci consegna in definitiva un ritratto dell’uomo, e quindi anche dello scrittore, oltre a un monito morale o moralistico su certi fenomeni dell’oggi.

In primo luogo, c’è in Oz la consapevolezza della tragedia della vita, nel senso etimologico e non pessimista del termine. La vita corre lungo il filo di una tensione non risolta e non risolvibile fra opposte polarità, e ciò appunto la fa vita e non morte. Amore e odio, ragione e cuore, luce e tenebra, sono nella cosa stessa, sono negli altri e in noi stessi. Il chiaroscuro è la cifra complessiva del mondo umano, ove il vero e il falso, il bene e il male, sono spesso inestricabilmente connessi. Avere contezza di ciò significa assumere quella serenità che, da un lato, ci farà godere i momenti belli, ma sempre caduchi, della vita, e dall’altro ci darà quella capacità di non soggiacere alla iubrìs, cioè alla tracotanza, che è il Dio maligno che possiede completamente il fanatico. Ciò non significa che, al momento giusto, noi non si debba prendere posizione in modo netto, ma dobbiamo farlo tenendo sempre aperta la porta al dubbio, all’autocritica, al cambiamento anche il più radicale di noi stessi. Essendo pronti al compromesso anche, perché esso è componente essenziale del vivere insieme fra diversi. E soprattutto non proponendoci di migliorare gli altri per un loro presunto bene.

Bisogna combattere, scrive Oz, “quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”. Pensare che uno scrittore con queste idee e con questa stoffa morale abbia potuto sorgere e maturare nel caleidoscopio di contraddizioni che vive giornalmente Israele, e che a mio avviso supera nel modo migliore, è solo apparentemente un paradosso.


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